La storica crisi che attraversa i movimenti e i partiti della sinistra italiana, a cominciare dal PD che è numericamente quello più consistente, sembra aver riportato all’attualità la parola “socialista”. I segnali sono tanti: a cominciare da quello lanciato dal politologo Michele Salvati, primo teorizzatore del Partito Democratico, che ora riflette sulla necessità di un grande partito socialdemocratico in Italia. E inoltre, è prezioso il contributo della storica Simona Colarizi, che riflette su quale sia la direzione per uscire palude e cioè un ritorno a una forte identità socialista (senza contare le iniziative, di intellettuali e movimenti, che si moltiplicano ovunque).
Riflessioni promosse da La Repubblica, quotidiano che storicamente ha osteggiato “la questione socialista” e che oggi, invece, contribuisce ad alimentare il dibattito su una presupposto che a noi socialisti, che abbiamo tenuto quella fiammella accesa anche dopo il crollo della Prima Repubblica che ha spazzato via i partiti di massa, appare necessario. Buon segno. Eppure, per anni – almeno un trentennio – la parola ‘socialista’ è stata accantonata, rifiutata, taciuta. Una parola che non trova, ancora oggi, diritto di cittadinanza, in Italia, in un grande movimento popolare di sinistra. E che sconta una assurda anomalia: i grandi partiti di sinistra, in Europa, sono socialisti – si pensi alle esperienze di Pedro Sanchez in Spagna, Sanna Marin in Finlandia, la Spd in Germania e quella dei socialisti portoghesi- in Italia finiscono per essere (ottusamente) “progressisti”.
Attenzione: non si tratta nè di un banale esercizio dialettico, nè del tentativo, che tra l’altro ha radici lontane ma che non ha incontrato molta fortuna, di sdoganamento di una parola come quella socialista. Perché questo non basterebbe, da solo, a risolvere la crisi. Ma qualcosa di più. E cioè un suo profondo ripensamento. Perché con la storia, prima o poi bisogna farci i conti. Una storia che ci ricorda che, dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, nel vecchio Pci, in tutte le sue fasi, nei cambi di nome del partito si sono guardati bene dall’usare la parola socialismo. E questo non è un caso, ne’ è una cosa che ha a che fare con il lessico, ma un modo di non fare i conti con la storia.
Una crisi della sinistra così grave come quella di oggi, accompagnata da una crisi della rappresentanza e il rischio di una eccessiva frammentazione delle forze democratiche e europeiste, suggerirebbero un cambio di passo radicale. Basta rendite di posizione, stop allo spirito di autoconservazione e di correntismo permanente nei partiti, guardare al futuro con visione e quello spirito innovatore, eretico e di modernizzazione necessari per leggere la società aperta, calata nella globalizzazione del nuovo millennio. E all’affermazione delle libertà individuali e dei diritti sociali prima ancora che civili. In altre parole, una sinistra che per ‘leggere’ la società, trova la sua identità nel socialismo.
