Finalmente. Verrebbe da dire. Stato e Regioni. Dopo Galli della Loggia e Giulio Tremonti adesso anche Sabino Cassese (Corriere della Sera del 2 dicembre), da par suo, ha messo il dito nella piaga: il caos della nostra architettura istituzionale. Esaltato e aggravato dalla gestione nella pandemia. E, ovviamente, senza l’approccio superficiale e liquidatorio di chi, in una situazione sempre più confusa, si è abbondantemente applicato alla ricerca di facili capri espiatori con il giochetto dello scaricabarile tra Stato e Regioni. Le cause e gli errori individuati da Cassese sono tutti condivisibili. Lo è in particolare l’imputazione al Governo di non aver utilizzato gli strumenti di cui dispone per imporre, là dove necessario, decisioni unitarie. E sono condivisibili anche le motivazioni denunciate per tale atteggiamento.
È stato utile, al gabinetto, giocare opportunisticamente e ambiguamente con le Regioni: a volte blandite, altre ascoltate per chiamarle a condividere le responsabilità, altre utilizzate come terreno di sperimentazione e infine contestate e liquidate per le loro critiche alle scelte venture del Governo. Un conflitto che serve anche, come ricorda Cassese, per eludere un confronto nel Parlamento e la dialettica con l’opposizione, che procurerebbe assai più difficoltà all’esecutivo. Condivisibile infine è il richiamo alla necessità della leale collaborazione tra Stato e Regioni.
Soprattutto perché viene da un giudice emerito della Corte costituzionale, la quale sulla leale collaborazione ha costruito il pilastro del regionalismo italiano (a proposito, ma qualcuno che si rivolgesse alla Corte costituzionale, anziché lasciarla completamente ai margini, com’è accaduto da febbraio a questa parte? Forse una sua parola potrebbe esser d’aiuto). Ma la collaborazione, come si sa, ha bisogno di una volontà a collaborare e di procedure che questa collaborazione rendano effettiva. Quando essa si riduce a mera consultazione è chiaro che il conflitto prende altre strade, i toni si accentuano e scattano rappresaglie e ostruzionismi da parte del “collaboratore” messo ai margini. In questo caso, appunto, le Regioni.
Soprattutto poi, e ancora una volta non manca di notare Cassese, quando si assiste alla fortissima asimmetria di legittimazione politica tra un governo nazionale che esprime la forma più arcaica del parlamentarismo assemblearista, fatto di maggioranze fragili, rissose e disunite e le Regioni, in cui vige un sistema di Premierato forte con elezione diretta del Presidente regionale. Le Regioni vogliono contare perché politicamente pesano. Insomma, una miscela incendiaria. Fanno sorridere pertanto le scorciatoie evocate da tanti che invocano una riforma del titolo V immaginando che il neocentralismo sanitario sia praticabile e auspicabile. Fanno sorridere perché è ridicolo invocare la modifica di una Costituzione della quale vengono disapplicati proprio gli strumenti che consentirebbero di contenere l’eccentricità regionale. È come reclamare l’intervento del fabbro per sfondare la porta di casa perché non si vogliono usare le chiavi. Per curiosità, date un’occhiata agli articoli 120 e 126 della Costituzione. Totalmente inattuati. Ma l’anarchia denunciata da Tremonti e, implicitamente evocata da Cassese, non dipende solo da questo. Dipende anche dal fatto che le procedure decisionali, già piuttosto opache, sono utilizzate come una specie di menu à la carte da cui, di volta in volta, il Governo sceglie l’ingrediente che preferisce.
La cosa più evidente? La sistematica elusione della previsione del d.l. 19/2020, adottata per coinvolgere il Parlamento. Secondo questa norma, prima di approvare i Dpcm, il Presidente del Consiglio dovrebbe ascoltare le Camere e tener conto di quanto esse dicano. Disposizione applicata appunto, a piacere, anzi non applicata affatto, se non in un paio di occasioni. Eppure il prossimo Dpcm non è proprio tra i più insignificanti. Primo, perché deciderà di come gli italiani celebreranno il momento più importante dell’anno, simbolicamente e tradizionalmente.
Il momento nel quale si riannodano affetti e si ritrovano identità, particolarmente devastate dalla solitudine, dal distanziamento, dalla reclusione dei lockdown. E poi perché questo è il periodo che determina, in condizioni normali, il segno dell’andamento, per importanti comparti dell’economia, del Pil per l’intero anno. Robetta insomma, che invece viene trattata – tra comitati, tavoli e annunci – come esca da ragionieri del calendario e cronometristi della serrata, senza che alcun dibattito, alcuna enunciazione delle ragioni, alcuna evidenza sia posta all’attenzione dei cittadini. Tanto ci saranno i verbali del Comitato tecnico. Ormai sono pubblici. Così potremo giudicare. Peccato che li conosceremo tra 45 giorni, insomma un po’ prima di San Valentino, perché così ha deciso il Governo.
E, allora, forse, a fronte di una collaborazione difettosa, di improvvisazione procedurale e di decisioni à la carte, non è un caso se a far sentire la propria voce siano esattamente le Regioni. Non perché abbiano necessariamente ragione (anzi su alcuni governatori pistoleri, più o meno pentiti, ci sarebbe molto da dire) ma perché sono gli unici soggetti che ancora ne abbiano, di voce. I cittadini, certamente no.
