Nel fulminante inizio del celebre saggio Il mito di Sisifo, Albert Camus scrisse che l’autentico problema filosofico è il suicidio, se valga o meno la pena, cioè, di vivere. Credo che quella domanda tipica dell’esistenzialismo sia inseparabile da un’altra questione, quella del deicidio, intendendo con ciò la nietzschiana “morte di Dio”. L’esistenza su cui dobbiamo interrogarci, infatti, è da un secolo quella di chi ha ucciso il Padre.
Come sopravvivere a questo? In effetti di morte o crisi del padre (anche e soprattutto con la pi minuscola) molto si è parlato e molto ancora si dirà. E giustamente. Tale crisi avviene, per dirlo in modo molto stringato, nel passaggio dalla società dell’onore, fondata sul valore della gerarchia, alla nostra società della dignità, nella quale quel valore viene messo radicalmente in discussione.
Se non si vuol peccare di faciloneria, però, salutare questa fase solo come la sospirata liberazione dal padre padrone, significa dire qualcosa di vero e insufficiente nello stesso tempo. Se infatti assieme al padre padrone, è il padre stesso a essere obliato, le conseguenze possono essere difficili da gestire, per i singoli e per la comunità. Attingendo dal patrimonio della psicanalisi, possiamo dire che il padre è eminentemente il simbolo della Legge. La sua figura, cioè, introduce il limite nel cuore della vita umana, permette l’incontro con l’impossibile, tanto più necessario quanto più il desiderio porta con sé, per così dire, una vocazione incestuosa, una spinta a volere tutto. Si tratta di capire che questo limite non è mera castrazione ma serve al desiderio personale affinché non diventi godimento mortifero.
Chi vuole tutto resta sbriciolato sotto il peso del proprio desiderio e introduce il seme della guerra di tutti contro tutti. Non è un’esperienza concretissima che possiamo fare nella nostra vita? Ecco che, anche in conseguenza dell’indebolirsi del piolo del padre, è sorta nella nostra società una strana alleanza tra relativismo e radicalismo. Da una parte un desiderio senza legge, nel quale i singoli pretendono di essere tutto; dall’altra una bulimica produzione di leggi dei rapporti interpersonali, che strangolano il desiderio.
Il discorso acquista nuova luce nell’epoca del digitale, anche se così sembriamo allontanarci dal tema. Ragionando sulla civiltà della tecnica, il filosofo Günther Anders, ne L’uomo è antiquato, ribaltava il mito di Prometeo: il rapporto dell’uomo col limite, oggi, non è più viziato dal peccato di hybris, della tracotanza. Bisogna guardare alla crescente potenza dei prodotti umani. Rispetto a questi, l’uomo è sempre più debole e soffre per tale ritardo prestazionale. “È ben vero – scrive Anders – che possiamo fare la bomba all’idrogeno, ma non siamo in grado di raffigurarci le conseguenze di quel che noi stessi abbiamo fatto. E allo stesso modo, il nostro sentire arranca dietro al nostro agire: con le bombe possiamo distruggere centinaia di migliaia di uomini, ma non compiangerli o rimpiangerli.
E, infine, ultimo della retroguardia, umiliatissimo ritardatario, ancor oggi coperto dei suoi cenci folkloristici, il corpo umano trotterella a grandissima distanza, dietro a tutti, privo di sincronizzazione con tutti quelli che lo precedono”. Il dislivello tra l’uomo e i suoi artifici, ha sviluppato nel primo una forma di vergogna per questa sua “inferiorità”, che Anders definisce “vergogna prometeica”. In altri termini, per Anders il disagio dell’uomo contemporaneo consiste proprio nel non poter essere una macchina. L’origine biologica porta con sé il contrassegno del limite, dell’imperfezione, della morte, mentre quella artificiale regala superiori capacità: la macchina è svincolata dai limiti propri della “carne”, non dorme, non mangia, non si innamora, non soffre.
Il peccato dell’uomo è quello di essere stato generato anziché prodotto: la macchina non ha padre, l’uomo sì; perciò la prima può virtualmente tutto, il secondo, purtroppo no. L’arguta tesi di Anders ci aiuta a comprendere come la questione della crisi del padre non sia solo un affare di psicologia sociale o di psicanalisi più o meno ben rimasticata, ma investe la civiltà tutta e il suo senso: se l’interdetto del limite è solo negativo, allora l’uomo può essere dichiarato antiquato, con esso anche il perimetro della differenza di genere e i passaggi legati alla generazione di altri essere umani, consegnabili in toto alla tecnicizzazione.
Non si tratta, ovviamente, di rimettere le lancette dell’orologio della storia indietro. La posta in gioco è capire come assecondare i legittimi e auspicabili progressi emancipativi della storia senza nutrire problematici deliri di onnipotenza. Per il cristianesimo, pure il Dio, l’onnipotente per definizione, quando si incarna accetta di avere un padre. La figura del padre può aiutarci a capire che dal valore della gerarchia, si può passare all’ordine degli affetti: sì, esiste un ordine nel desiderio, che il padre non può più imporre con muto e arbitrario potere, ma testimoniare come proposta possibile di una vita feconda e generativa. Che valga la pena di essere vissuta.
