Sulla spiaggia di Bondi Beach, a Sydney, non è esplosa una follia improvvisa ma qualcosa che da mesi, da anni, si accumulava sotto la superficie. Durante una celebrazione pubblica di Hanukkah, in uno dei luoghi simbolo della vita australiana, uomini armati hanno aperto il fuoco sulla folla. Famiglie, bambini, anziani. Ebrei riconoscibili, riuniti per una festa.
Il bilancio è pesante: morti, feriti, panico, sangue sulla sabbia. Un attentato mirato. Non un raptus, non un incidente, ma un atto di odio preciso, una strage calcolata, una carneficina vera e propria. E adesso immaginiamo che António Guterres tornerà a parlare di “contesto”, di fatti che non cadono nel vuoto. Certo che no, certo che non cadono nel vuoto. Cadono in un pieno fatto di odio, di menzogne, di persecuzioni, di infamie, di viltà. Un pieno fatto di silenzi compiacenti, di “in fondo se lo meritano”, di Israele paragonato al Terzo Reich, di terroristi innalzati sugli altari di una “resistenza” immaginaria, menzogna infame che viaggia anche grazie a tutti coloro – politici, intellettuali, artisti straccioni – che in questi ultimi due anni hanno perso ogni residuo di decenza, se mai ne hanno avuta una.
Chi oggi parla di “shock” mente a sé stesso, perché nulla di tutto questo è accaduto all’improvviso. La strage è il risultato diretto di una lunga stagione di legittimazione dell’odio, di una campagna costante di demonizzazione che ha trasformato l’ebreo in bersaglio simbolico, Israele in capro espiatorio universale, e ogni distinzione in un fastidio da rimuovere. Per mesi, in tutto l’Occidente, si è soffiato sul fuoco: slogan urlati nelle piazze, insinuazioni nei media, ambiguità colpevoli nelle istituzioni culturali e politiche. Tutto è stato relativizzato, giustificato e normalizzato. La responsabilità non è di un solo governo, né di un solo Paese. È una responsabilità collettiva, è delle classi dirigenti occidentali che hanno scelto la comodità dell’allineamento morale invece del coraggio della verità. È delle élite che hanno preferito strizzare l’occhio ai peggiori istinti pur di non esporsi. È di chi ha trattato l’antisemitismo come un effetto collaterale accettabile di una presunta causa superiore. È di chi ha confuso la critica legittima con la delegittimazione sistematica, e poi ha fatto finta di non vedere dove portava quella strada.
Ora, come sempre, arriva il tempo delle dichiarazioni commosse, delle veglie, delle parole di circostanza. Si fa a gara a chi è più solidale, più indignato, più umano. Ma questa recita tardiva non cancella nulla, e le lacrime istituzionali non assolvono anni e anni di irresponsabilità, perché quando l’odio viene coltivato e tollerato, prima o poi qualcuno lo raccoglie. E lo fa con le armi in mano. Il prezzo lo stanno pagando, prima di tutto, gli ebrei. Le comunità ebraiche, i singoli, le famiglie che scoprono di essere tornate a vivere sotto minaccia anche in Paesi che credevano sicuri. Ma sia chiaro che non è solo un problema “loro”. È un problema nostro. Di chi non è ebreo e vorrebbe continuare a vivere in società libere, in grado di dire no all’odio senza balbettare.
Bondi Beach non è solo una strage, ma ci appare come uno specchio perché ci mostra cosa succede quando si abdica alla responsabilità morale, quando si preferisce il consenso alla verità, quando si chiama “contesto” ciò che è odio puro. Lo sappiamo, guardarlo fa male. Ma distogliere lo sguardo, questa volta, non è un’opzione, se mai lo è stata.
