Così Eligio Resta nel suo La violenza (e i suoi inganni): «Il primo grande processo “mediatico” che ci racconta di una pena di morte è quello che Atene intenta a Socrate: il processo si conclude con una pena capitale in cui la morte del corpo si ribalta nella salvezza dell’anima, l’ingiustizia subita nella giustizia della città: il carnefice diventa vittima e la vittima carnefice, appunto pharmakòs. Non si esce dall’ambivalenza se non “ingannando” la violenza; mi è capitato molte volte di ripeterlo, si tratta di un gioco serio quello dell’inganno della violenza. Chi non prende sul serio l’inganno vedrà ritornare la violenza. Il diritto che interdice la morte condensa anche questa difficile scommessa per ingannare la propria violenza. Per questo non dobbiamo stupirci della violenza».
Devo a Eligio Resta l’ispirazione a destinare questo mio articolo a Il Riformista. Spero di essere convincente nel contesto di questo giornale, unico nel genere per la sua specifica vocazione garantista. Le ordinarie prese di posizione del garantismo impongono a mio avviso una urgente domanda: c’è qualcosa di nuovo e diverso che si muove nella sua tradizionale vocazione a preservare la vita umana dalle ingiurie della Legge, dei suoi processi e delle pene affettive e corporali che infligge? Di continuo la violenza sui singoli non cessa e dunque non cessa mai la semplicità – semplicità sempre più apparente e dunque sempre più ultimativa – dei discorsi garantisti. Viviamo nell’allentarsi dei dispositivi di “verità” più elementari di una democrazia sotto attacco e più ancora sfibrata dalle proprie contraddizioni storiche, originarie, e insieme dalla sua immersione in una globalizzazione finanziaria decisa a infrangere i suoi stessi presupposti etici e politici. Sembra anzi che la contrapposizione tra una giustizia giusta e una giustizia ingiusta (dunque in sintesi una ingiustizia giusta) incappi nel non-senso. In una sorta di nichilismo.
Forse, ad evitarne gli effetti di logoramento, è necessario spostare in avanti e indietro l’ottica del garantismo per arrivare non soltanto alla denuncia di un potere penale incapace e iniquo – un potere che produce sofferenza senza altra utilità che non sia la sua necessità di sopravvivenza – ma arrivare anche all’analisi dei i fattori socio-antropologici che ne sono complici, involontariamente e cioè automaticamente. Potremmo dire “per distrazione”. Azzardo una domanda diretta a me stesso e a chi sta leggendo questa pagina, quale egli sia e quale voglia essere nel suo ruolo, nella la propria professione di fede nella società civile (attenzione!). La domanda riguarda, innanzi tutto, quale sia, nel parlare abitudinario di “società civile”, il significato che le attribuiamo: positivo o negativo? E cioè, nell’usare questo classico termine della tradizione moderna, aderiamo al suo significato letterale oppure lo assumiamo in quanto falsificazione (falsa coscienza) di ciò che essa in realtà è, dunque “società incivile”? Ma il punto cruciale da affrontare riguarda direttamente, intimamente, la nostra coscienza personale: sappiamo frenare le seduzioni culturali alle quali apparteniamo – per alcuni il libro, altri lo spettacolo, altri la rete, altri il metodo e la teoria, altri la politica, altri la religione, altri la più minuta vita quotidiana – per guardare direttamente dentro la condizione umana di una sofferenza di cui siamo complici in quanto comunque afflitti dalla necessità di sopravvivenza e dalle violenze che essa ci spinge a compiere su noi stessi e sugli altri da noi?
Eligio Resta ci può aiutare a rispondere a questa domanda leggendo l’appassionato rilancio che l’autore ci offre del suo lungo lavoro di filosofo del diritto. La figura di intellettuale che gli si può accostare è certamente Stefano Rodotà, e infatti Resta rivolge un sentito omaggio alla sua memoria, ma queste poche dense pagine pubblicate ora da Sossella Editore nella collana Collassi, dimostrano una inquietudine ben diversa e in tutto particolare: il coraggio di trattare il tema della violenza senza temere di entrare in contraddizione con se stesso ma scegliendo di fare proprio di essa la sua vocazione. Dunque di farne lo strumento per dividere – invece che saldare in una sola prigione – la persona umana dalla propria professione, dal ruolo di competente nel campo delle infinite tecnicalità che compongono e scompongono i dispositivi (scritti, interpretati e applicati) del Diritto Penale: là dove è in gioco la morte della carne e più si “mostra” – viene mostruosamente messo in scena – il circolo vizioso tra pena e violenza. Tale è, per Resta, questo rapporto: un legame vizioso, dunque una abitudine “cattiva” (che imprigiona). Inclinazione, deriva, che impone di continuo la necessità di un pensiero in grado di resisterle, rivelarla (nel giusto senso di una scrittura apocalittica).
Il nodo su cui l’autore insiste in ogni pagina è espresso nella paradossale intercambiabilità tra la massima, appunto apparentemente legittima, che sentenzia “la violenza crea il diritto” e, di contro, la massima, all’opposto perturbante, “il diritto crea la violenza”. Nessuna dialettica è qui possibile: tesi e antitesi sono l’una il rovescio dell’altra. E non può esservi sintesi possibile. Può esserci soltanto la consapevolezza di tale impossibilità. I due antagonisti del classicismo moderno da Resta più citati sono non a caso Nietzsche (sulla morte e sulla volontà di potenza della natura umana) e Benjamin (per il quale la violenza che crea il diritto è la stessa che lo conserva). La conseguenza di questo approccio è sentirsi umanamente responsabili di ciò che diversamente specializza la sfera del diritto e la sfera della politica (anche della guerra che ne è la soluzione estrema, finale). E infine la sfera amministrativa (in cui l’esercizio della violenza e delle pene si fa più diffuso e mascherato ma non meno ambivalente). Per questo Resta ci avvisa sul dovere di frenare la produzione sociale di morte e dolore (ad opera appunto del diritto, della politica, delle istituzioni) investendo quanto più possibile sulla legittimità della violenza e sempre meno sul “pharmakon della violenza”. Dunque non su una visione illusoria, ideologica, riformista della violenza, ma su una visione di essa “realistica”, senza “falsa coscienza”. Tragica.
La violenza è sempre “anche” e quindi “comunque” illegittima, e l’idea di cura per mezzo della violenza non fa altro che perpetuare la violenza stessa, confermarne il carattere originario, da un lato, e utilitaristico dall’altro. Ha ragione Benjamin nell’avere posto questo dilemma – alla vigilia della furia novecentesca – direttamente al centro della critica della violenza e non al di fuori, nel campo delle illusioni umaniste e dei principi speranza della civiltà occidentale. Non vi è da avere cura soltanto della violenza del potere e dello Stato moderni, ma, se essa – in base alle leggi di natura del potere e della politica – resta comunque il solo mezzo per raggiungere fini, bisogna allora affrontare l’accadere di una violenza giusta. «E la violenza, giustificata per una volta, dovrà esserlo sempre». Un “giudizio” quello di Resta per nulla ricompositivo, pacificatorio e salvifico, ma tragico. E tuttavia proprio l’inganno della violenza è l’esile margine che resta alla natura umana per distinguersi dalle leggi di natura del mondo vivente, della la sua cecità e carenza di linguaggio. Unica garanzia, seppure incerta, di avere “giusta coscienza” di se stessa.
