L’AIEA lancia il sasso e nasconde la mano. Il sistema ONU foraggia agenzie che generano caos

L’Organizzazione delle Nazioni Unite è il principale fattore di destabilizzazione del mondo contemporaneo. Le sue agenzie dovrebbero essere strumenti di integrazione e collaborazione, custodi del diritto internazionale, garanti dell’equilibrio globale. Ma da tempo, e in modo ormai sistemico, l’intero apparato delle Nazioni Unite si è trasformato in un generatore di crisi, portando ulteriore scompiglio nei conflitti, aggravando le emergenze anziché contenerle, mentre continua incessantemente a drenare risorse agli Stati.

L’ultimo caso dell’AIEA – Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica – è emblematico. Il 12 giugno 2025, il suo Board of Governors ha approvato una risoluzione formale accusando l’Iran di gravi violazioni degli obblighi derivanti dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP), denunciando il mancato chiarimento su quantità di uranio non dichiarato trovato in siti segreti, e l’ostruzionismo sistematico dell’Iran verso ispettori e strumenti di monitoraggio. Una presa di posizione netta che è suonata come un avallo a un attacco militare israeliano, infatti invocato da più parti come inevitabile.

Passano sei giorni, e il 18 giugno il direttore generale dell’AIEA Rafael Grossi, intervistato dalla CNN, dichiara: «Non abbiamo prove che l’Iran abbia un programma nucleare militare strutturato. Non possiamo dire se sia imminente, né se sia questione di anni… In realtà non lo sappiamo». Una dichiarazione assurda e sconnessa, che mina alla radice la risoluzione precedente e non informa, non rassicura, non allerta. Mette semplicemente le mani avanti, con una formula diplomatica che vale tutto e il suo contrario. E che lascia ad altri – i governi, gli eserciti – le conclusioni. La scienza abdica, la responsabilità evapora, resta solo la burocrazia.

Ma il caso AIEA non è un’eccezione. È il sintomo di una contraddizione di fondo del sistema ONU: da un lato, un Consiglio di Sicurezza paralizzato dal diritto di veto delle grandi potenze, che impedisce qualsiasi decisione efficace; dall’altro, un’Assemblea Generale in cui la maggioranza numerica è composta da Paesi illiberali, antioccidentali, e spesso apertamente ostili all’idea stessa di un ordine internazionale basato su regole comuni.

Ne deriva che tutte le agenzie dell’ONU non agiscono secondo criteri di verità o urgenza, ma secondo logiche politiche e simboliche. Difendono innanzitutto sé stesse: status, governance, flussi di finanziamento. Sono strutture autoreferenziali che, anziché risolvere i conflitti, li osservano e li descrivono in modo ambiguo, per rimanere al centro della scena. E prendono sempre più spesso esplicite posizioni politiche. Come fa per esempio Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori palestinesi, che ha sempre, sistematicamente rifiutato di condannare Hamas come organizzazione terroristica, anche dopo i massacri del 7 ottobre 2023, concentrando la sua narrativa su presunte «pulizie etniche» israeliane e strologando sulle colpe dell’Occidente.

Ma la sua non è una voce isolata: è parte di un impianto retorico e burocratico più generale, infarcito di propaganda ideologica, incapace di rappresentare un punto d’equilibrio credibile nei conflitti più drammatici, e in ogni ambito. L’Organizzazione Mondiale della Sanità durante la pandemia ha alternato negazionismo, dipendenza politica dalla Cina, assoluta confusione e tendenziosità dei messaggi comunicativi. L’UNHCR (l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati) spesso denuncia gli Stati che cercano di regolare i flussi migratori più di quanto non condanni i regimi che li provocano. L’UNESCO è diventato un marchio dedito solo al marketing turistico per qualunque borgo o sagretta in giro per il mondo, e di certo non tutela il patrimonio culturale e naturale della Terra. Per non parlare poi della delinquenziale UNRWA, l’agenzia dedicata ai palestinesi, coinvolta perfino nell’attacco del 7 ottobre, con alcuni suoi stipendiati che facevano da carcerieri degli ostaggi.

La domanda conclusiva, provocatoria ma legittima, viene da sé: non ha forse ragione Donald Trump quando dice che gli Stati Uniti non dovrebbero più finanziare l’ONU? Perché continuare a versare miliardi a un sistema che accoglie, coccola e legittima i suoi nemici, che paralizza ogni decisione seria, che usa le emergenze globali per rafforzare sé stesso, e che quando si arriva al dunque non sa decidere, non sa proteggere, non sa dire la verità? Gli Stati Uniti sono di gran lunga il principale finanziatore del sistema ONU. Coprono il 22% del bilancio ordinario e circa il 27% delle operazioni di peacekeeping. Una quota sproporzionata rispetto a qualunque altro Paese. E mentre versano miliardi di dollari ogni anno, molti altri Stati membri contribuiscono poco o nulla, ma condizionano pesantemente l’agenda e la narrazione.

Il mondo è cambiato. Le crisi si susseguono, si aggravano. I popoli chiedono verità e decisioni. L’ONU non è più in grado di fornirle. Bisognerebbe prenderne atto.