Era apprezzato da Tolstoj e da Proust, che in una lettera a Madame de Noailles le consigliò: «Leggete le pagine ammirevoli di Walden». Ispirò Hannah Arendt, che nel 1970 scrisse Disobbedienza civile, riprendendo il titolo di un suo celebre saggio del 1849. Più di recente, in Italia, Henry David Thoreau ha fatto parte dei punti di riferimento del Movimento Cinque Stelle – ogni epoca fa quello che può – tanto che Gianroberto Casaleggio aveva associato la sua residenza di campagna alla casupola di legno che si era costruito Thoreau nei boschi del lago Walden (ma accessoriato con connessione internet).
Oggi, l’atteggiamento che ispira tante pratiche di Greta Thunberg evoca inevitabilmente, ancora, Thoreau, quando combatteva contro i valori e le attività sciagurate della sua epoca, non con armi politiche, ma incarnando un modello alternativo di comportamento virtuoso. Thoreau non amava viaggiare e si rifugiò per due anni in un bosco – coltivando, cacciando e ricucendosi i vestiti da solo – Greta si ritrae da plastica e voli aerei. Thoreau dimostrò che l’uomo è l’artefice della propria felicità, Greta dimostra che l’uomo è l’artefice della propria infelicità. Tra l’uno e l’altra sono evidenti infinite differenze – oltre a essere separati da tutta la costellazione di non violenti, da Gandhi a Luther King – ma sono accomunati da un medesimo slancio verso la natura e la difesa dell’ambiente.
Si rischia sempre, certo, di ridurre Thoreau a un profeta dell’ecologismo moderno, a un’icona della non violenza, e il suo testo cruciale, Walden (del 1854), a un vademecum per ambientalisti radicali. Rischio che intravedeva già John Updike quando, nel 2004, scriveva: «Walden è diventato un tale totem della filosofia di vita del ritorno alla natura, dell’opposizione al lavoro e della disobbedienza civile (…) che rischia di essere tanto venerato e poco letto quanto la Bibbia». Oggi, per restituire una tridimensionalità a un personaggio sfaccettato come Thoreau – più complesso e più ricco di interessi e sfumature di quanto non venga raccontato – è possibile leggere parte del suo diario, appena pubblicato da Piano B edizioni, tradotto e curato da Mauro Maraschi e intitolato Io cammino da solo (pp. 406, euro 18).
I diari di Thoreau sono un’opera monumentale, trentanove taccuini scritti nell’arco di ventiquattro anni, dal 22 ottobre 1837 al 13 maggio del 1861 (l’anno prima di morire). Il suo Journal fu pubblicato in quattordici volumi a partire dal 1906. Su quale base quindi selezionare dei brani e altri no? Scrive il curatore: «Alla base di queste scelte c’è stata l’impressione che, nel lungo termine, alcuni autori vengano più snaturati di altri proprio in relazione alla loro citabilità, e che con Thoreau questo fenomeno raggiunga il suo apice».
Thoreau infatti è un autore perfetto per essere cannibalizzato e con il tempo l’immagine che abbiamo è quella di un autore di aforismi. La sua scrittura è effettivamente spesso aforistica, con qualcosa di inafferrabile e lirico ideale per essere catapultato nell’epoca delle frasi per i social network. Quanti like prenderebbe la frase del diario: «L’autore deve fare del suo libro una scogliera contro la quale possano infrangersi le onde del silenzio»? Prima di questo volume sono stati pubblicati altri libri con parti di diario preferendo selezioni per temi.
Leggendo queste pagine, si ha l’impressione di aggirarsi nel laboratorio dei suoi tre libri principali, Walden, Camminare e Disobbedienza civile. È scrivendo i diari che Thoreau deve aver raffinato il suo filosofare e sono queste riflessioni, di rimando, a chiarirgli il valore della scrittura. Bisogna sempre ricordare che i tre libri che sono sintesi e rilancio della letteratura americana, Foglie d’erba di Walt Whitman, Moby Dick di Melville e Walden di Thoreau escono uno nel 1854 e gli altri due nel 1855. In due anni, questi tre testi sono stati un terremoto tale nella letteratura americana che ancora osserviamo scosse d’assestamento. Insieme, contengono non solo i valori della democrazia americana – al centro anche delle prossime presidenziali americane – ma ne regolano i generi: il romanzo (Moby Dick), la poesia (Foglie d’erba) e la riflessione autobiografica (Walden). Tutti e tre si possono leggere come lettere d’amore che celebrano e mitizzano l’America fisica: territorio, vegetazione, oceano.
Contrariamente al peso storico che avranno i suoi libri, sosteneva Thoreau: «Un libro è davvero buono quando si guadagna ben poca attenzione. È talmente stimolante che mi invoglia a fare piuttosto che a leggerlo. Mi fa venire voglia di metterlo giù e cominciare a vivere in base ai suoi consigli». Difficile dire se la lettura del Journal induca più a ritirarsi nella foresta o se invogli di più a continuare a leggere all’infinito i suoi diari. Di fatto queste pagine sono a volte spassose: «Odio i musei, non c’è nulla che mi gravi di più sullo spirito. Sono le catacombe della natura. Un verde germoglio di primavera, un amento di salice, il debole richiamo di un passero migrante basterebbero a rimettere in piedi il mondo intero.
La vita contenuta in un singolo ciuffo d’erba verde vale di più di tutta quella morta. I musei sono natura morta collezionata da uomini morti»; a volte irriverenti: «Il solo pensiero della spregevolezza dei politici basta a rovinarmi una passeggiata», a volte sono esattamente ciò che ci si aspetta che siano, imbevuti della sua proverbiale attrazione per alberi e foglie, una devozione per i boschi ricorsiva e senza freni: «L’altro giorno stavo cercando di descrivere il piacere che mi dà passeggiare da solo nei boschi lontano dalla città».
Oggi che nel dibattito internazionale si discute tanto di climate fiction – la letteratura che si interroga sui cambiamenti climatici – e di antropocene, Thoreau è destinato ad essere sempre più visto come un anticipatore di temi che saranno all’ordine del giorno: «È sempre più raro che un territorio non mostri ferite fresche o cicatrici indelebili che rivelino il passaggio più o meno recente dell’uomo», scriveva. A giudicare dai diari, questa sua fama postuma, il suo destino di nostro contemporaneo, lo avrebbe lasciato indifferente. Da vero anticonformista, sempre allergico alle formalità, alle “buone maniere”, alle banalità dette e pensate, aveva sempre la testa rivolta verso avvenimenti minuscoli in cui coglieva verità epocali e simboliche, verità che una volta annotate sui diari si trasformavano in rivelazioni potentissime: “Il grano cresce di notte”.
