L’autogol di Meloni, difende Polonia e Ungheria che attaccano l’Italia sui migranti economici

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 28-06-2023 Roma Politica Camera dei deputati - Comunicazioni del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni sul prossimo Consiglio europeo Nella foto Giorgia Meloni 28-06-2023 Rome (Italy) Politics Chamber of deputies - Communications from Prime Minister Giorgia Meloni on the next European Council In the pic Giorgia Meloni

Se ci mettiamo a difendere polacchi e ungheresi mentre loro ci giocano contro e cercano di lasciarci in mano i migranti economici che sbarcano sulle nostre coste, che poi sono le coste sud dell’Europa, direi che non va bene. Difendere i confini, i portafogli, e i posti di lavoro italiani; liberando le mani di chi vuole fare, cioè impedendo che lo stato lo disturbi. Questo era il programma elettorale, peraltro pure condivisibilissimo per me, di Giorgia Meloni.

Dopo otto mesi di Governo però, il fatturato piange. Urge dare gas. L’Europa fa un passo avanti, e mette a bilancio 12 miliardi per la gestione dell’immigrazione, che da problema solo italiano diventa finalmente europeo. Evviva. Ma sulla redistribuzione obbligatoria (ché quella facoltativa, cioè totalmente inutile, la lasciamo ai pensierini di Conte) dei migranti economici, che quella, si, fa la differenza, Polonia e Ungheria si mettono di traverso (primo obiettivo della prossima legislatura europea spero sia ‘basta con la regola dell’unanimità, e dei relativi veti, e via con la votazione a maggioranza’).

E la premier Meloni che fa? Dice di capirli: “Hanno accolto molti profughi dall’Ucraina”. Vero, ma che c’entra? L’Italia non ha blindato affatto i suoi confini e registra un boom di arrivi che è quasi da record, e noi riconosciamo a Polonia e Ungheria un bonus che deve poi scontare l’Italia nell’accogliere una massa crescente di immigrati? E perché mai? Perché sono conservatori in Europa? Ma chi se ne frega.

In questo momento, piaccia o meno, sono loro i nemici dell’interesse italiano. E come tali vanno trattati. È una questione di serietà istituzionale, ma anche politica. Oltre che di coerenza con quanto promesso e sostenuto in passato, se mi è concesso. Difenderli non si può, né si dovrebbe. Dopo di che, e sempre in aderenza ai giusti proclami di campagna elettorale, gli italiani attendono di essere liberati dall’oppressione fiscale che, sommando prelievi contributivi per pensioni sempre più’ lontane e ridicole, e prelievi Irpef, addizionali di ogni genere comprese, lascia a una partita iva meno del 50% di quanto faticosissimamente fatturato.

Lo Stato spende e spande, ma di tagliare la spesa pubblica per tagliare seriamente le tasse, nemmeno si parla lontanamente. La riforma fiscale deve essere coraggiosa e affamare la bestia (cioè lo Stato vorace e spendaccione): cosi sì che non disturberà chi vuole fare. Quella della Giustizia ha appena fatto capolino, ma decapitata del suo piatto forte: la separazione delle carriere. Sulla concorrenza resistono conati corporativi perché si sceglie di proteggere chi guida il taxi rispetto a chi il taxi lo prende e a chi vorrebbe darsi un lavoro, e chi gestisce da generazioni le nostre spiagge anziché chi le frequenta e chi vorrebbe gestirle al posto di chi lo fa oggi, senza attendere l’estinzione di una generazione. Se anche Nicola Porro, nella sua seguitissima Zuppa, sgrana gli occhi, un motivo di perplessità ci deve essere. Mediterei, e cambierei marcia. O farei le prime ammissioni.