Fin dall’inizio della crisi molti osservatori avevano previsto che la mappa della Siria, divisa in cinque parti, come concepita dai francesi negli anni ‘20, sarebbe stata ripristinata. La Siria ora, infatti, è ancora frazionata in sfere di influenza o controllo con le forze curde a est e a nordest, sostenute dagli Stati Uniti (che controllano gran parte di quella regione ricca di risorse energetiche e idriche); con l’area drusa a sud di Damasco di fatto sotto il controllo di Israele; con la minoranza alawita, sostenitrice del vecchio regime, manovrata dall’Iran, sulla costa siriana di Latakia e Tartus, dove sono situate due basi russe, e con gran parte della Siria nordoccidentale sotto il controllo dell’esercito di Ankara e dei suoi proxi arabi-sunniti del cosiddetto Esercito libero siriano.

L’amministrazione di al-Sharaa ha dunque necessità di prendere il controllo dell’intero paese se vuole avere un futuro e per scongiurare la definitiva frammentazione della Siria. Sharaa, sostenuto in questo dagli Stati Uniti, sta cercando la sponda dell’asse arabo del Golfo per costruire la nuova Siria e sta compensando l’inadeguatezza della sua retorica islamista che preoccupa non poco Israele con il nazionalismo arabo. Ma l’unica cosa che renderà questa strategia efficace è la conquista del controllo di ogni centimetro del paese. Il nazionalismo arabo trascende l’islamismo ed ha permeato profondamente queste terre. Tuffarsi in questa miniera è un dettato di pragmatismo.

Nel progetto nazionalista di al-Sharaa pesa negativamente la situazione di stallo dei colloqui tra Damasco e le Forze democratiche siriane (SDF) a guida curda per la loro integrazione nel nuovo esercito nazionale in fase di formazione. Ankara e Damasco chiedono che il nucleo delle SDF legato al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), noto come Unità di protezione del popolo (YPG), si sciolga e si disarmi, mentre i restanti combattenti delle SDF dovrebbero arruolarsi nell’esercito come individui piuttosto che come blocco. Un incontro previsto per il 19 luglio a Parigi tra il comandante delle SDF Mazlum Kobane e il ministro degli Esteri siriano Asaad al-Shibani era stato annullato all’ultimo minuto da Damasco a causa del rifiuto dei curdi di cedere terreno in anticipo, ma è stato riprogrammato in questo mese di agosto e sarà mediato dall’inviato statunitense in Siria, Tom Barrack, e dal ministro degli Esteri francese Jean-Noël Barrot. Tuttavia, la ripresa degli scontri tra le SDF e le forze governative nei pressi della diga di Tishreen stanno gettando un’ombra sul processo. Barrack ha definito “inquietante” l’aumento della violenza in un post su X e ha esortato le parti a “mantenere la calma e risolvere le divergenze attraverso il dialogo, non con lo spargimento di sangue”.

Per Ankara l’integrazione delle Forze democratiche siriane a guida curda nell’esercito di Damasco è un passo fondamentale verso una “Turchia libera dal terrorismo” e per la stabilità regionale perché tale organizzazione siriana rappresenta una ramificazione del PKK in patria con la quale il governo turco ha in corso un accordo sul disarmo e sul suo scioglimento. Le SDF intendono certamente integrarsi all’interno dell’esercito siriano, ma vogliono preservare il proprio status di organizzazione distinta all’interno dell’amministrazione di Damasco. Ankara è ansiosa di vedere accelerarsi questo processo perché vuole mettere in sicurezza i 930 km del suo confine sudorientale con la Siria. Per i decisori turchi le SDF rappresentano una minaccia perché sono considerati una ramificazione del PKK e dunque anch’esse terroristiche. Per questo stanno esortando le SDF a procedere con l’accordo del 10 marzo tra il presidente siriano Ahmed al-Sharaa e il comandante delle Mazlum Kobane. L’accordo, se attuato, vedrebbe il nordest controllato dalle SDF rientrare nello Stato siriano in cambio del riconoscimento di alcuni diritti e di una quota delle entrate nazionali nell’amministrazione locale, che però non sarebbe autonoma.

Intanto in Turchia proprio ieri è stata istituita una commissione parlamentare che ha l’obiettivo di supervisionare il processo di pace in corso tra lo Stato e il Pkk che ha recentemente annunciato il suo scioglimento e il disarmo. Per Erdoğan l’obiettivo della commissione è arrivare ad avere una “Turchia senza terrorismo”. L’opposizione sostiene che l’attuale processo di pace, come quelli precedenti, non riguarda tanto la risoluzione del conflitto curdo quanto la riorganizzazione del campo politico a vantaggio del presidente. A costituzione vigente Erdoğan non potrà candidarsi alle presidenziali del 2028 per il limite dei due mandati e dunque, per continuare a restare al potere, dovrà apportare un cambio costituzionale, ma non ha la maggioranza qualificata in Parlamento per modificare la Costituzione e per questo vuole attrarre il partito filocurdo DEM nella sua orbita offrendo ad esso un accordo di “riconciliazione nazionale” e nello stesso tempo rompendo l’alleanza elettorale che tale partito ha dal 2019 con i repubblicani del CHP, grazie alla quale l’opposizione ha sconfitto il partito del presidente nelle elezioni municipali del 2024.