Diciamoci la verità: ci saremmo anche un po’ stufati di andare dietro alle bizzarrie argomentative di Piercamillo Davigo, ex magistrato tutt’ora venerato da alcuni suoi devoti, che ancora si “infiammano” (così ci garantisce il Fatto Quotidiano), quando egli snocciola, a settembre scorso, le sue confuse e stravaganti ragioni di avversione alla separazione delle carriere. Ma proprio in questa occasione (Festival del Fatto Quotidiano, appunto), nella quale obiettivamente ha superato ogni limite, le sue stupefacenti parole disvelano una verità che, naturalmente, milita nel senso esattamente opposto alle sue intenzioni, meritando perciò la più attenta considerazione. Cosa ha detto, in sostanza, Piercamillo (potete leggere la trascrizione testuale in quarta pagina)? Che con la separazione delle carriere il PM, non più collega del Giudice, ma pur sempre collega del PM teoricamente competente ad indagare su quel giudice che si ostina ad assolvere («o è cretino, o è un ladro», è escluso in radice che possa avere ragione), alza il telefono e dice due paroline a quel suo collega: «Diamo un po’ un’occhiata ai suoi conti correnti». E lui ci garantisce («sono stato 42 anni in magistratura») che un giudice raggiunto da un accertamento patrimoniale «si terrorizza, muore di spavento».
Analisi logica dello sproloquio: 1) lo spirito di colleganza tra appartenenti alla stessa carriera, nel suo esempio i PM “separati”, favorirà atti di condizionamento indebito del giudice “sospetto”; 2) ergo, l’attuale spirito di colleganza tra PM e giudice può a maggior ragione favorire atti di condizionamento del giudice, e quel che è peggio previene – ci pare di capire – atti di controllo sul giudice sospetto; 3) i giudici sono normalmente “terrorizzati” da eventuali accertamenti sul loro patrimonio; 4) insomma: separazione = P.M. estorsori fuori controllo; carriera unica = protezione corporativa reciproca.
Le disastrose conseguenze logiche del ragionamento (se così si può dire) del dott. Davigo sono dunque autoevidenti, ma a ben vedere richiamano, seppure in modo assai maldestro, una argomentazione autorevolmente diffusa tra i sostenitori del NO: i PM, staccati dalla carriera dei giudici, diventeranno un pericoloso corpo separato, una specie di squadrone della morte che impazzerà in lungo e in largo nel nostro Paese. Il che presuppone che i PM questa pulsione ce l’abbiano naturalmente, ma la tengono a bada -Dio solo sa perché – grazie all’unicità di carriera con i giudici. Noi invece pensiamo che i PM sono pur sempre formati e poi tenuti a rispettare la legge, e che soprattutto sono comunque innocui perché possono solo chiedere al giudice di essere autorizzati ad intercettare, arrestare, sequestrare, rinviare a giudizio. Ergo, quanto più il giudice sarà distante, estraneo e non condizionabile, tanto meglio sarà per i diritti di tutti i cittadini, e tanto meno sarà possibile per i PM costituirsi in squadroni della morte.
Ma soprattutto: se alcune Procure, o alcuni PM, decidono di condizionare il giudice per portare al successo le proprie indagini, perché mai non potrebbero farlo a carriere unificate? Ecco perché abbiamo voluto raccontarvi alcune storie, avvenute – capisce, dott. Davigo? – sotto l’egida di questo sistema ordinamentale. È un utile richiamo alla memoria, ma soprattutto ci aiuta a far comprendere quanto sia disperata e scomposta la difesa di un assetto ordinamentale, il nostro, unico al mondo (processo accusatorio a carriere unificate). E allora, vogliamo – semplicemente – chiederci il perché? Non sarà forse questa strenua ed irragionevole opposizione ad una soluzione ordinamentale presente in tutti i paesi civili con processo penale accusatorio, la difesa pervicace di un sistema di potere, cioè di un sistema processuale fortemente sbilanciato in favore dell’Accusa? Se lo spirito di colleganza, secondo lo stesso ragionamento del dott. Davigo, può costituire di per sé il motore di comportamenti condizionanti verso il giudice, come si può seriamente pensare che non lo sia già oggi, proprio perché PM e Giudici sono colleghi? Buona lettura.
