Le vite perdute, la solitudine nel mondo, la rinuncia alla vendetta: il triplice sacrificio di Israele e la bussola smarrita dall’Occidente

People react as a convoy carrying the hostages released from the Gaza Strip arrives at a military base near Reim, southern Israel, on Monday, Oct. 13, 2025. (AP Photo/Leo Correa) Associated Press/LaPresse

Personalmente non mi riconosco in una cultura messianica. Per la verità non sono neppure credente. Ma nessun essere umano può dirsi estraneo alla storia ultramillenaria di Israele, a partire da quel topos simbolico del sacrificio narrato nella Bibbia. Il racconto lo conosciamo tutti: nelle Scritture, Abramo è pronto a offrire suo figlio Isacco sul monte Moria per obbedire a Dio. È il gesto che segna l’origine morale del popolo d’Israele, la capacità di anteporre la fede e la vita collettiva all’interesse personale.

Il sacrificio del 7 ottobre

Quel sacrificio non si è mai interrotto. Si rinnova nella storia, ogni volta che Israele viene chiamato a scegliere tra la sopravvivenza e la resa, tra la fedeltà a sé stesso e la convenienza politica. E oggi rivive tre volte — sul piano umano, morale e politico — collocando Israele al punto d’incrocio contemporaneo tra il bene e il male. Il primo sacrificio è quello del 7 ottobre 2023, quando uomini, donne, bambini, soldati e civili israeliani furono massacrati o rapiti. Israele pagò con il sangue l’illusione di una tregua duratura, la speranza di poter convivere accanto a chi, da decenni, prepara la sua distruzione. Da quella mattina dovette riscoprire la sua vocazione originaria: difendere la vita come un comandamento. Ogni soldato caduto, ogni ostaggio non tornato è il volto moderno di Isacco, offerto non a un dio crudele, ma alle asperità della storia.

La solitudine nel mondo

Il secondo sacrificio è la solitudine nel mondo. Israele ha combattuto e combatte non solo contro un nemico armato, ma contro un nemico invisibile: l’ipocrisia di una comunità internazionale che lo giudica con un metro che non applica a nessun altro. I suoi nemici possono bombardare, torturare, mentire; Israele, invece, deve giustificarsi per ogni atto di difesa. Ha combattuto contro i media che hanno trasformato i carnefici in vittime, e contro i governi occidentali che hanno barattato la verità con il consenso delle piazze. In questa battaglia non ha difeso solo sé stesso, ma il principio più alto della nostra civiltà: la libertà come bene non negoziabile.

Liberare terroristi

Il terzo sacrificio è quello di ieri, il più doloroso e moralmente paradossale: liberare centinaia, forse migliaia di terroristi, nemici dichiarati del mondo libero, in cambio di venti cittadini israeliani. È un gesto che rovescia la logica della forza e afferma la centralità della vita umana sopra qualunque calcolo politico. Ogni ostaggio liberato rappresenta l’idea che una sola vita vale l’intera nazione. Israele paga un prezzo altissimo, ma non rinuncia alla propria identità. Fa ciò che nessun governo occidentale avrebbe il coraggio di fare: sacrifica sicurezza per salvare persone.

Un atto di apparente fragilità che diventa segno di invincibilità morale. Il triplice sacrificio di Israele — le vite perdute, la solitudine nel mondo, la rinuncia alla vendetta — racconta la distanza tra una civiltà che considera la vita un valore assoluto e un Occidente che ha smarrito la bussola morale. L’Europa, prigioniera del proprio relativismo, non sa più distinguere tra chi difende la libertà e chi la distrugge. Israele sì: continua a combattere, a soffrire, a vivere secondo la legge più impegnativa, quella della responsabilità. Portando sulle sue spalle, ogni giorno, il peso di un’etica che noi abbiamo smarrito.