Leopardi vive, cuore di tenebra di quest’era buia

Centinaia di morti ogni giorno nei reparti di terapia intensiva degli ospedali italiani rendono questa fine d’anno assai tragica: continua a colpire la solitudine dei malati, in grande maggioranza anziani, privati del conforto dei propri cari. E torna alla memoria la riflessione intensa e temeraria dell’ultimo Leopardi, confinato a Villa Ferrigni, il cui sguardo audace ma tutt’altro che impietoso, ho ritrovato nel recente studio di Chiara Fenoglio, Leopardi moralista (Marsilio, pp. 174, 12 euro), come una perla nel rigagnolo di queste tristi giornate.

Il libro, in sette saggi dedicati al sommo poeta, indaga il pensiero – sempre attuale – del grande recanatese, soprattutto sulla base dello Zibaldone, con puntuali e perfettamente argomentati sostegni bibliografici, dalla “morale fragile” usata come tecnica di sopravvivenza sulla “via del disincanto”, per contrapporsi alla “strage delle illusioni”, all’analisi molto intrigante che prende in esame la celebre iscrizione giovannea della Ginestra (“E gli uomini vollero / piuttosto le tenebre che la luce,” Gv, III, 19), giustamente scorporata da ogni interpretazione spiritualistica, ancorché non riducibile in chiave meramente illuminista, stante l’esito confederativo del “vero amor”, “come atteggiamento morale capace di sollecitare l’aiuto vicendevole degli uomini “Negli alterni perigli e nelle angosce / Della guerra comune.”

Proprio sulla scia di tale suggestione ho riletto Il tramonto della luna, una scoscesa espressiva se possibile ancora più impervia di quella lavica dove spunta il fiore del deserto, in quanto priva persino del suo lancinante profumo. Nel 1836, quando Giacomo Leopardi compose questa poesia estrema, a Torre del Greco, sulle pendici del Vesuvio, era ormai agli sgoccioli. Anche se le sue condizione di salute parevano pessime, a trentanove anni nemmeno per quei tempi poteva essere considerato anziano; eppure questi suoi versi urticanti rappresentano una delle meditazioni più vertiginose che mai siano state elaborate sulla vecchiaia, stazione-capolinea dell’avventura biologica: forse soltanto l’ironia sarcastica che li attraversa come in un brivido, quasi l’ultimo battito d’ali della farfalla agonizzante, può non dico cancellare ma almeno mitigare il bilancio amaro di cui comunque restano intrisi. E tuttavia, benché questa canzone metricamente libera, con tre strofe di varia lunghezza cosparse qua e là di rime e assonanze, sia priva del conforto legato all’eroica protesta formulata nella fase conclusiva della poetica leopardiana, sarebbe difficile negarle forza, lucidità e, nella scandita dichiarazione di sconfitta, suprema grandezza lirica.

Nella lunga galleria buia che stiamo attraversando, a quanto ci informano gli psichiatri, non sono pochi a reclinare in una bolla protettiva, “dove la saggezza”, per dirla con le parole di Chiara Fenoglio, tese a distillare senza alcun indugio il disincanto leopardiano, «non è tanto assenza di illusioni, ma consapevolezza che quelle illusioni possono essere coltivate solo nello spazio solitario dell’io, e si sgretolano non appena si entra nel commercio con gli altri».
Nel lungo esordio paesaggistico, simile allo snodarsi lento del serpente intorno alla base dell’albero, il calare della luna viene associato all’implacabile dileguarsi della giovinezza: così come quella “scolora il mondo”, questa fa venir meno “le lontane speranze”. “Abbandonata, oscura / resta la vita”. Sembra quasi che il poeta, tornando ai toni e alle sensibilità dei primi indimenticabili idilli, voglia segnare una tacca della sua presenza nel legno dell’esistenza prima della definitiva dipartita, senza concedersi il lusso di alcuna indulgenza sentimentale, visto il ragionamento che viene fatto subito dopo: l’umana sorte sarebbe stata fin troppo benigna se la vita terminasse con la fine della gioventù.

È come se un crudele incantesimo avesse voluto consegnare ai nostri simili un destino ancora più duro dispensando a piene mani l’età senile, descritta con incisiva e drammatica crudezza: “incolume il desio, la speme estinta, / secche le fonti del piacer, le pene / maggiori sempre, e non più dato il bene.” Che era stata poi la caustica conclusione di uno dei Pensieri: «La vecchiezza è male sommo: perché priva l’uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori». È questo, inutile negarlo, il cuore nero della poesia: insieme un urlo rauco di desolazione e il canto sconsolato dell’individuo rimasto da solo, chiuso all’angolo, nell’impossibile tentativo di lenire la propria angoscia. Giacomo Leopardi non lascia scampo. È vero: come negare l’auspicio che leggiamo nella Ginestra?

In quella straordinaria risoluzione poetica formulata sull’orlo del magma gli uomini, confederati fra di loro, potrebbero ritrovare una sorprendente unità propositiva riconoscendosi fratelli gli uni nel volto degli altri. Ma non nel Tramonto della luna che è forse il momento vissuto oggi da molti. Né il confronto finale con la Natura potrà aiutarli a uscire dall’orrido in cui sono sprofondati, giacché mentre quest’ultima vedrà nuovamente risorgere il sole, pronto a spargere le sue “fiamme possenti” su campi e torrenti, la “vita mortale”, non godrà più “d’altra luce giammai, né d’altra aurora.” Con la risonanza definitiva della “sepoltura”, quale permanente eclissi.