Ho letto l’articolo di Anna Foa (La Stampa, 13/09/25), e mi chiedo come sia possibile mettere assieme eventi tra loro diversissimi come le espulsioni degli ebrei nel corso del Medioevo, la Shoah, e l’attuale spostamento di civili verso il sud della Striscia di Gaza. A prescindere da quello che si pensa della politica di Netanyahu (contestata anche da una parte della società israeliana), bisognerebbe evitare di fare accostamenti che non contribuiscono per nulla alla comprensione di ciò che sta accadendo in M.O.
Tralasciamo di rilevare l’ipocrisia di tutti coloro che si disperano per i Gazawi ma non dicono mezza parola sulle ben più numerose vittime degli altri 54 conflitti in corso: qualcuno potrebbe accusarmi di benaltrismo. Concentriamoci invece su quanto afferma Foa: le cacciate degli ebrei medievali, in fondo, non erano sempre accompagnate dalla minaccia di morte imminente. Potevano andare altrove, rifarsi una vita. Certo: poco importa che venisse loro tolto tutto, come nel 1290 in Inghilterra, nel 1306 in Francia, nel 1492 in Spagna e nel 1497 in Portogallo. Foa scorda di menzionare le ricorrenti persecuzioni che quasi sempre precedettero quelle espulsioni, oppure le stragi a cui non necessariamente fece seguito un’espulsione. In Renania, nel 1096, durante la cosiddetta Crociata dei pezzenti; nel regno d’Inghilterra, a partire dai pogrom di fine XII secolo; in Spagna nel 1391, con migliaia di morti e altrettante conversioni forzate. Persecuzioni ed espulsioni che avvenivano solo a causa della diversa fede religiosa. Gli ebrei d’Europa non ammazzavano i cristiani, e certamente non costituivano una minaccia esistenziale per la popolazione.
I Gazawi, scrive Foa, non sanno dove andare. Non è del tutto vero, perché alcuni hanno già lasciato Gaza. Ciò che è indubbio, viceversa, è che nessun paese vicino li vuole: non l’Egitto, che ben si guarda dal consentire ai civili di entrare nel suo territorio; certo non la Giordania, memore di quanto avvenuto alcuni decenni fa. Anche la menzione (poteva mancare?) della Shoah appiattisce quello che fu un evento unico, non per il numero di morti, ma per uno sterminio portato avanti in modo scientifico e industriale, al punto da spingere i nazisti a uccidere una parte dei pochissimi sopravvissuti con marce della morte o esecuzioni sommarie. A Maidenek, Auschwitz, Treblinka non entravano camion di aiuti, e certamente non c’erano flotille o manifestazioni per i milioni di disgraziati che in questi luoghi persero non solo la vita, ma anche la propria dignità di esseri umani.
Nessuno nega che la guerra sia una tragedia: la gente muore, perde le case, soffre la fame. A Gaza e in tantissimi altri luoghi di cui nessuno parla. Ma sarebbe almeno onesto ricordare che questa guerra ha avuto inizio con un atto scellerato, il 7 ottobre, quando i miliziani di Hamas e tanti (troppi) civili Gazawi hanno massacrato, violentato, mutilato 1200 persone che tutto volevano tranne la guerra. Gli abitanti dei kibbutzim di confine, idealisti e pacifisti, che trasportavano i malati di Gaza negli ospedali israeliani per esservi curati, e dei ragazzi che volevano solo ballare. Hanno rapito 250 persone, il più piccolo – Kfir Bibas – aveva otto mesi. Assieme al fratellino è stato strangolato a mani nude. I pochi ancora in vita vengono fatti morire di fame. A chi dice che questa non è una guerra, ricordo i circa 16.000 razzi lanciati da Gaza nei mesi successivi al 7 ottobre, tutti contro obbiettivi civili.
In tutto ciò, gli abitanti di Gaza non sono solo vittime, come certo non lo erano i tedeschi e gli italiani 80 anni fa. Hamas avrebbe potuto restituire gli ostaggi e consegnare le armi, e la guerra sarebbe finita. Ma non lo fa perché – come è scritto molto chiaramente nel suo Statuto – vuole una cosa sola: la distruzione di Israele (“dal fiume al mare”, appunto), e la morte di tutti gli ebrei del mondo.
