L’escamotage di Trump sul Sistema antimissilistico Patriot: “L’Italia compra dagli USA per l’Ucraina”. Dubbi sul recupero

Il conflitto russo-ucraino è entrato in una fase difficile da interpretare. La terza visita da inizio anno a Londra di Zelensky ha confermato che il Regno Unito resta il suo primo partner europeo. Dagli incontri con Re Carlo III e Starmer, il presidente ucraino si porta a casa la garanzia che i volenterosi ci sono. L’impegno di Downing Street è che l’Ucraina si trovi «nella posizione più forte possibile con l’avvicinarsi dell’inverno», ha detto il premier britannico. Questo nonostante le debolezze dei volenterosi al di qua della Manica. Prima tra tutte la Francia di Macron, per necessità concentrata a risolvere i problemi interni. Un’assenza che permette all’Italia di guadagnare posizioni. Anche alla luce di come si è chiuso il Consiglio Ue di giovedì.

Nuove divisioni interne

Il rinvio a dicembre su come utilizzare i beni russi, congelati nelle banche europee, mette in evidenza nuove divisioni interne all’Unione. Questa volta non sono stati Orbán o Sánchez a fare ostruzionismo. Bensì il premier belga, De Wever, che ha difeso con forza la decisione del suo Paese di non sostenere il prestito europeo da 140 miliardi di euro proposto per l’Ucraina, insistendo sul fatto che gli altri Stati membri dovrebbero condividere i rischi legali e finanziari legati al piano prima che il governo belga possa approvarlo.

Il tema della co-responsabilità

In effetti, quello della co-responsabilità è un tema. «Io avrei fatto la stessa cosa», diceva ieri il cancelliere tedesco Merz. Il problema non è disciplinato nei dettagli. Non c’è una norma che preveda come comportarsi nell’utilizzare risorse finanziarie che non sono proprie del Paese che le custodisce, per colpire di fatto i titolari delle stesse risorse. È un vuoto legislativo che smentisce l’iper-regolamentazione europea. E che rischia di tornare in favore di Mosca. Non fosse altro perché, a causa di questo stand by, i soldi non si toccano. E l’Ucraina resta all’asciutto. Vero solo in parte, però. Il Purl infatti prosegue. E con esso anche l’eventualità che i Paesi europei contribuiscano per altre vie a sostenere Kyiv. Non solo mettendo mano al portafoglio, ma anche inviando armi.

Il caso del sistema Patriot

Da questo punto di vista, non si svela un mistero dicendo che nessun Paese europeo ha in stock armamenti pronti per l’uso da spedire al fronte. Ecco perché si sta trovando un’alternativa. «Le batterie Patriot sono messe a disposizione dagli Usa, l’Italia le paga, vanno in Ucraina, i fondi spesi da Roma contano come contribuzione Nato», spiega un alto ufficiale dell’Aeronautica militare italiana, oggi in congedo, che desidera restare anonimo. È un escamotage di Trump per stimolare gli alleati europei a investire nell’industria Usa della Difesa, intestando l’operazione come propria dell’Alleanza atlantica. Una soluzione win-win, che mette d’accordo Washington, noi europei, ma anche Kyiv, che di quegli equipaggiamenti ha bisogno ora. «Gli Usa contano il trasferimento come una quota maggiorata di contribuzione alla Nato, che Trump chiede da mesi». Sulla carta ha un senso. Resta l’incognita di chi sarà poi l’armamento una volta finito di usare al fronte. Resterà in Ucraina? Tornerà nelle mani di chi l’ha acquisito? «Qualora si arrivasse alla pace, è ragionevole pensarne il recupero. Decurtato però dell’usura e delle differenziazioni di armamenti dei singoli Paesi. L’Italia, per esempio, utilizza i Samp/T, come missili a medio raggio. Mentre sono i Patriot l’oggetto delle trattative oggi. È difficile pensare che ci vengano restituiti questi».

L’obiettivo post-conflitto: la ricostruzione

A parte le incognite procedurali, è chiaro l’obiettivo post-conflitto. Il processo di ricostruzione interessa a tutti i governi. C’è chi punta alle materie prime del Paese, gli Usa. Chi si è già prenotato per accaparrarsi buona parte del bottino, la Turchia. E chi, invece, si sta muovendo forte della propria esperienza nel campo dell’impegno umanitario e della cooperazione. Su questo l’Italia, meno cinicamente rispetto ad alcuni suoi partner, ha un modello che funziona. Per applicarlo – con cinismo – deve farsi vedere impegnata nel conflitto. D’altra parte, ancora una volta, si stanno facendo i conti senza l’oste. «Vladimir Putin non dimostra di voler fermare la guerra», ha commentato Zelensky a Londra, ammonendo poi del rischio di un disastro umanitario.

Le sanzioni, Pechino e Washington

Le sanzioni di Trump all’oil&gas russo sono la reazione irosa all’atteggiamento del Cremlino che, effettivamente, continua a non voler arrivare a un dunque. Quello che più sorprende è la decisione della Cina. Anch’essa ha interrotto le forniture di petrolio russo. Si tratta di misure di scarsa dimensione, va detto. Anche quelle degli Usa sono un’opzione “media”, ha detto il Wall Street Journal. Altra cosa sarebbe stato colpire l’industria e la leadership politiche. È però il peso politico a contare. Pechino e Washington si sono stancate. Così forse si spiega la missione di Kirill Dmitriev, il rappresentante speciale di Putin, arrivato negli Stati Uniti ieri. Secondo la Cnn, Dmitriev incontrerà membri dell’Amministrazione Trump per continuare le discussioni sulle relazioni bilaterali. C’è chi, con malizia, dice che sia meglio avere Putin impegnato al fronte piuttosto che dover accoglierlo ai tavoli della politica internazionale. Ma è altrettanto vero che un conflitto impostato sul principio non riconosciuto dell’autodeterminazione può creare un precedente. Vedi Taiwan per Pechino. Una guerra irrisolta è comunque una distrazione dagli obiettivi primari di un leader. Vedi il Maga.