Caro Claudio,
Ti devo per forza parlare della mia esperienza da parlamentare, durata 7 anni, una legislatura quella dal 1987 al 1992 quasi intera e una, quella dal 1992 al 1994, bruscamente interrotta dallo scoppio di Tangentopoli e dalla decimazione di ministri e parlamentari. Fino agli sconvolgimenti che seguono l’89 e la svolta di Occhetto, il gruppo parlamentare era organizzato in modo quasi militare. Disciplina durissima e gerarchie da rispettare. L’Unità ogni giorno pubblicava alcune righe che dettavano l’impegno. C’erano tre tipi di avviso.

Il primo recitava: “I parlamentari comunisti sono tenuti ad essere presenti”. Tradotto: ti ricordo che c’è seduta in Parlamento ma non sei tenuto ad essere presente. Cioè il contrario di quanto scritto: una piccola forma di ipocrisia. Il secondo: “I parlamentari comunisti sono tenuti ad essere presenti senza eccezione”. In quel caso bisognava esserci. Con qualche eccezione. I dirigenti massimi, quelli della segreteria del Partito per esempio, potevano anche non venire, tanto non c’erano voti decisivi, c’era solo da dare una prova di forza e disciplina. Poi c’era il terzo: “I parlamentari comunisti sono tenuti ad essere presenti senza eccezione alcuna”. E in questo caso c’era poco da fare. Anche Berlinguer – che frequentava le aule parlamentari solo in occasioni storiche, quando sceglieva di pronunciare un discorso importante – in quei momenti faceva il suo dovere di parlamentare semplice, votando secondo le indicazioni del nostro segretario d’aula. Pollice su si vota a favore, pollice giù si vota contro. Grosso modo si votava a favore solo dei nostri emendamenti o dei nostri ordini del giorno, contro quando si trattava di atti della maggioranza. Nella memoria del gruppo si ricordavano episodi leggendari: Berlinguer cazziato da Pajetta perché si era presentato in ritardo, o un povero deputato semplice, operaio di Torino, anche lui cazziato sempre da Pajetta perché si era allontanato dall’aula per espletare bisogni fisiologici e noi eravamo andati sotto per un solo voto: il poverino, nell’occasione, voleva morire.

Ora, chi oggi dice che il lavoro del parlamentare è solo una sinecura ben pagata non sa quel che dice. Intanto noi deputati comunisti versavamo metà dello stipendio al Partito. Il primo atto che mi venne richiesto, appena misi piede in Parlamento, fu la firma della delega al Partito a incassare direttamente quella parte dello stipendio. Probabilmente un atto illegittimo alla luce dei regolamenti parlamentari, ma queste erano le regole, e nessuno nemmeno immaginava di contestare la cosa. Restava sempre una discreta cifra ma niente di faraonico. Poi, nei giorni in Parlamento cominciavi la mattina molto presto con Commissioni varie e poi ore e ore di aula incastrato negli stretti banchi di Montecitorio a schiacciare i bottoni del voto. In autunno si discuteva “la finanziaria”, vale a dire gli impegni di bilancio dello Stato per l’anno successivo, e potevi restare bloccato in aula anche per più di un mese, da mattina a sera, votando centinaia di emendamenti cosiddetti di bandiera, presentati per sostenere questa o quella causa, anche se non erano mai approvati. Piuttosto frustrante. Se poi eri un deputato di prima legislatura la tua libertà di iniziativa era praticamente zero. Anche una semplice interrogazione parlamentare doveva, prima di essere depositata, sottoposta al giudizio del capogruppo.

Personalmente ho preso la parola per la prima volta in aula solo nella seconda legislatura, per motivare la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro Prandini, allora responsabile del dicastero dei Lavori Pubblici. E poi fuori dal Parlamento c’era il tuo collegio che ti aspettava ogni fine settimana con assemblee, riunioni, incontri con elettori che avevano problemi e ti chiedevano una mano. A casa, se ti andava bene, ci stavi la domenica pomeriggio. Bilancio della mia esperienza? Ho imparato un sacco di cose sul funzionamento dello Stato e sul processo legislativo che mi sono state poi molto utili negli anni successivi. Ma certo anche molta frustrazione per un’attività che un vecchio deputato democristiano aveva definito così: “Il lavoro del Parlamentare? Fatica, fatica senza lavoro”. Molto tempo speso per pochi risultati. Tanto è vero che quando nel novembre 1993 Francesco Rutelli diventò Sindaco di Roma e mi chiese di andare a lavorare con lui, accettai immediatamente, rinunciando ad una carriera parlamentare che sarebbe potuta continuare. Ma, forse per la mia origine bergamasca, sentivo il bisogno di un lavoro che si potesse tradurre in fatti. Scelsi di fare il Presidente di ACEA, e mai scelta fu più felice.

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Caro Chicco,
tu ricordi la nostra cara amica e compagna Angela Francese, che abbiamo perso poco tempo fa in un dannato incidente stradale. Angela mi raccontava spesso divertenti episodi della sua vita parlamentare, che durò parecchie legislature, dal 1979 al 1992, anni in cui fu strettissima collaboratrice di Nilde Jotti, in qualità, mi pare, di segretaria di Presidenza. Ma qui non voglio soffermarmi sui suoi ricordi, gustosi come i tuoi, quanto sul suo percorso, dall’approdo in Parlamento fino al suo forzato abbandono, che spiega tante cose del funzionamento del Partito che fu e della deriva antipolitica e populista degli anni successivi.

Angela era una giovane impiegata alla Remington – anche se bisognava spacciarla per operaia perché faceva più figo – quando il Partito decise, nel 1979, di candidarla alla Camera. Fino a quel momento i dirigenti della Federazione le avevano detto che era cento volte più importante essere parte della segreteria provinciale del Partito, perché lì si prendevano le decisioni, mentre nelle istituzioni si andava solo per eseguire gli ordini. Magari intascavi un po’ di soldi in più, ma insomma vuoi mettere la differenza tra l’appartenere ai sinedri dove si prendevano le scelte importanti, e andare da qualche parte a schiacciare bottoni: non c’era paragone quanto a prestigio del ruolo. Questo discorso veniva fatto a tutti (anche a me in qualche circostanza) e tutti facevamo finta di crederci, anche se sotto sotto chiunque scalpitava per essere eletto: l’ebbrezza sacra dell’istituzione tirava più delle stanzette affumicate e mal arredate di una sede di partito. Fatto sta che, dopo la grande avanzata del 1976, nelle elezioni successive c’era bisogno di forze fresche, nuove, e soprattutto di donne, che cominciavano a fare sentire la loro voce.

Così la giovane, inesperta impiegata fu scelta per il salto in Parlamento. Per Angela fu l’inizio di una nuova vita, e anche la ratifica di una nuova condizione sociale. Il padre, democristiano e impiegato comunale, che ne aveva osteggiato la militanza comunista fino a nasconderla a chiunque, cominciò ad accompagnare in giro la neoparlamentare quando tornava a casa nei fine settimana, applaudendola nei comizi, ed esibendola nel suo quartiere come un trofeo. Lei, che aveva interrotto gli studi dopo il diploma in ragioneria per lavorare e aiutare la famiglia, imparò a dare un senso alla fatica parlamentare diventando una grande esperta delle tematiche del lavoro, e costruendo parallelamente un suo peculiare profilo culturale: viaggiando, divorando libri, frequentando cinema e teatri.

La piccola fiammiferaia era diventata, nel giro di pochi anni, un’autorevole e ascoltata – sempre sanguigna – rappresentante delle istituzioni. Fino a quando, nel 1992, il Grande Partito non decise di farla fuori, con la scusa dell’ottusa regola interna (paleogrillina, e comunque disattesa a piacimento) del tetto massimo delle tre legislature, in realtà utilizzata per punire Angela a causa della sua appartenenza alla componente migliorista di Giorgio Napolitano. Aggiungi che all’epoca andavano forte gli appelli fatui al rinnovamento della politica, l’esaltazione acritica della cosiddetta società civile, e il gioco è fatto. Il PCI si privò in un batter d’occhio di una parlamentare esperta e capace, che si era costruita dal niente una grandissima professionalità e – nel caso di Angela come di tanti altri – cominciò a portare acqua al mulino dell’antipolitica, che di lì a poco sarebbe esplosa, regalando i suoi copiosi frutti a populismi di vario genere e natura.

La storia, davvero emblematica, di Angela Francese non finisce qui. Con tre legislature sul groppone, aveva maturato il famigerato vitalizio parlamentare, a mio avviso sacrosanto strumento di garanzia che assicurava ai parlamentari indipendenza economica anche dopo la fine del mandato, e che è stato abolito dalla ignobile furia populista dei nostri tempi. Nel suo caso, Angela non poteva tornare al lavoro che aveva abbandonato più di venti anni prima, quindi il vitalizio era davvero una ragionevole “compensazione” per l’interruzione o la perdita di un percorso professionale. E a lei serviva anche per sorreggere alcuni suoi fratelli e sorelle meno fortunati nei loro percorsi di vita. Poi la scure del più becero qualunquismo e dell’antipolitica si è abbattuta sugli ex-parlamentari con tagli odiosi e capotici.

Ciò nonostante lei ha mantenuto negli ultimi anni la dignità di sempre, continuando ad aiutare la famiglia e partecipando in ogni forma possibile alla vita pubblica, prima di lasciarci. Ma, a fare ora un bilancio della sua vita, si può dire in due parole che una grande risorsa umana, che pure la politica e le istituzioni avevano meritevolmente formato e forgiato, è stata letteralmente dissipata dalla politica stessa: un caso emblematico di autofagia. Come sai, ci sono tantissimi altri casi simili. Eppure basta da sola la storia di Angela a spiegare come la politica si è autodistrutta nel nostro paese.

Chicco Testa e Claudio Velardi

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