Cinquant’anni fa esatti, è il 1975. Il Parlamento ha appena promulgato la legge Reale, un pacchetto di emergenza contro il terrorismo. Il Corsera titola: “Da oggi siamo tutti un po’ meno liberi”. Il tema era già posto con spietata chiarezza: a quanta libertà, a quanto diritto siamo disposti a rinunciare, pur di salvare il diritto e la libertà? Dopo mezzo secolo, e in uno scenario non più solo italiano, la questione degli asset russi bloccati in Europa ripropone lo stesso dilemma. La scelta compiuta dall’Unione ha il tratto della saggezza giuridica e della prudenza democratica: 90 miliardi di debito comune per un prestito più o meno a fondo perduto.
Ma la coerenza del ragionamento finisce qui. Con questo sostegno parziale e finanziato dai Paesi europei, il messaggio che arriva dal Cremlino è duplice. Il primo è la spinta a continuare la guerra fino a sfinire sul lato finanziario l’asse Kyiv-Unione, ormai orfano del sostegno americano. Il secondo induce un’altra spinta, quella a intensificare la guerra ibrida per corrodere dall’interno le democrazie europee. Invadere le menti, prima che la terra. Si possono già oggi immaginare gli strepiti di destre e sinistre antisistema per l’ennesimo sacrificio richiesto ai cittadini, le risorse tolte al welfare e via con l’escalation della retorica. Tutto, pur di far dimenticare che dentro l’Europa opera un aggressore che colpisce ogni giorno obiettivi civili e deporta i bambini. La guerra viene giustificata come argine all’espansione della Nato e rivendicazione di territori “storicamente russi”. E quindi non fa mistero di volersi estendere, appena possibile, ad altre aree e altri Paesi che dell’Unione e della Nato sono invece parte integrante.
La domanda da porsi, quindi, non è se la decisione presa sia più democratica di quella che è stata accantonata. Ma quanto abbia difeso davvero la democrazia europea. Presto potremmo dover concludere che aveva ragione la Germania di Merz. Una scelta forte sugli asset russi, costruita su un impianto giuridico razionale (anticipo sulle riparazioni), sarebbe stata eccezionale e di guerra, però idonea ad un tempo in cui il regime russo ha deciso di risolvere con la guerra le questioni politiche. E riguardo alle possibili ritorsioni, nessuna anima bella può persuaderci che con la decisione di oggi il pericolo venga definitivamente eluso. Basterà un qualsiasi pretesto per trasformare i droni-sonda di questi mesi in attacchi effettivi, tesi a verificare se l’articolo 5 della Nato funziona davvero, o se invece, anche quello, è un concetto da sacrificare sull’altare del politicamente prudente.
Nell’euforia per lo scampato pericolo di fratture interne, si elude una questione fondamentale: se usare fondi russi per contrastare la guerra russa avrebbe dei profili di illegalità, restare fermi ha il costo politico altissimo di pagare noi, con soldi pubblici, il prezzo di una invasione altrui. In una fase storica in cui il primo degli “asset russi” non è depositato nelle banche europee, ma risiede a Washington e si chiama Donald Trump. Un leader che condivide con Putin non il primato del diritto ma la legge del più forte. Quella che oggi l’impeccabile Europa del diritto ha scelto di violare. L’Unione sta cambiando passo, e finalmente ha cominciato a prendere decisioni a maggioranza. Ma ora serve una consapevolezza più solida e profonda del tempo in cui viviamo. Perché sotto le bombe il diritto ha un altro profilo, e per salvarlo occorre riscriverne la dottrina e i manuali.
