Da anni ormai Amnesty International cerca di mobilitare – invano – le coscienze europee sul caso del prof. Ahmadreza Djalali, cittadino iraniano e svedese, professore all’Università del Piemonte Orientale a Novara, detenuto da sette anni in attesa di impiccagione in Iran.
Una vicenda surreale e che purtroppo non ha suscitato lo stesso clamore mediatico del caso di Patrick Zaki. Se non interverranno fatti nuovi, a tre anni dalla condanna capitale, Djalali sarà impiccato nei prossimi giorni essendo caduti tutti gli appelli e, nelle scorse settimane, anche la ventilata possibilità di uno scambio con un detenuto iraniano in Svezia condannato per terrorismo.
La carriera universitaria di Djalali- Specializzato in medicina di emergenza, Djalali ha svolto ricerche ed insegnato a livello universitario non solo in Svezia (dove è stato residente per diversi anni con la famiglia, assumendo la cittadinanza svedese) ma anche in alcuni altri istituti europei, tra cui l’Università del Piemonte Orientale e il centro Crimedim di Novara, comune che nel 2019 gli ha conferito la cittadinanza onoraria mentre già era detenuto nelle carceri iraniane da circa tre anni.
Accusato di spionaggio – Djalali era stato arrestato nel 2016, mentre si trovava in Iran su invito dell’Università di Teheran e Shiraz, con l’accusa di spionaggio a favore dei servizi segreti israeliani. Per questa accusa delirante può essere giustiziato in qualsiasi momento, poiché nei giorni scorsi la magistratura iraniana ha comunicato di aver terminato con esito sfavorevole la procedura di revisione del suo caso, avviata su richiesta del suo avvocato d’ufficio non essendo stato concesso a Djalali di avere un avvocato di fiducia.
L’esecuzione della condanna era inizialmente prevista per il 21 maggio, poi sospesa in attesa di questo ultimo ricorso. Secondo le informazioni fornite dal suo avvocato, Djalali (dopo un’ultima comunicazione telefonica ai famigliari lo scorso 24 novembre) non può tra l’altro più telefonare alla sua famiglia, nel frattempo tornata in Iran, né può più incontrarsi o parlare con il difensore; è in isolamento e perennemente minacciato di esecuzione.
Le condizioni nelle celle dei condannati a morte – Secondo Amnesty International, sono inaccettabili, con solo 180 x 180 cm di spazio, niente finestre e niente mobili. La cella è altamente antigienica, con vecchie coperte che devono essere utilizzate come materasso, cuscino e riparo dal freddo. Le celle sono sporche e piene di formiche e scarafaggi. Djalali avrebbe perso 24 chili di peso, non si reggerebbe in piedi ed avrebbe urgente bisogno di cure mediche
Secondo Amnesty International le autorità iraniane avrebbero fatto forti pressioni su di lui affinché firmasse una dichiarazione in cui confessava di essere una spia al servizio di un “governo ostile”. Quando ha rifiutato, è stato minacciato di essere accusato di reati più gravi ed infatti è stato successivamente condannato a morte per impiccagione.
