L’idea di Muti: un Lincoln Center a Napoli propulsore per il futuro

Provate a immaginarlo. Un grande centro. Un unico ponte di comando per coordinare le attività del Teatro San Carlo, del Conservatorio San Pietro a Majella, del Museo dei Girolamini e di molte altre eccellenze artistiche di Napoli. E ora provate anche a immaginare gli effetti a valanga di una simile operazione: l’esplosione dell’offerta culturale, la conseguente crescita della domanda, l’economia che gira, la qualità dei servizi che non può non adeguarsi. Un sogno? No. Semplicemente, una cittadella delle arti che potrebbe trovare spazio a Napoli prendendo a modello il più grande hub delle perfoming arts del mondo: il Lincoln Center di New York.

In due parole, il Lincoln è un organo di collegamento tra istituzioni della cultura e dello spettacolo che vanno dalla Metropolitan Opera alla School of American Ballet, dalla Chamber Music Society alla Film Society, dalla Juillard School alla New York City Opera, e via dicendo. Un microcosmo delle arti che rappresenta il più alto standard nell’offerta e nella programmazione artistica a livello nazionale e mondiale e il cui paradigma trasferito a Napoli troverebbe terreno fertile. Perché? Perché Napoli è una miniera – e questo lo si ripete spesso – ma Napoli è anche un’occasione sprecata – e anche questo lo si lamenta un giorno sì e l’altro pure – per il patrimonio artistico e culturale che ancora non viene valorizzato adeguatamente.

«Il Center – dichiara a il Riformista Antonio Ciacca, docente e direttore della programmazione del Lincoln – non ha inventato nulla. Ha soltanto organizzato e coordinato istituzioni già presenti sul territorio che facevano attività indipendente e scoordinata. Adesso c’è un unico cartellone, un unico board e tante collaborazioni strutturate». E dunque, perché non immaginare una storia del genere a Napoli?

Qualcuno già l’ho ha fatto. È Riccardo Muti. Il maestro e direttore d’orchestra – che a Ravenna ha creato la Riccardo Muti Italian Opera Academy – in occasione di un’intervista al Corriere del Mezzogiorno dello scorso agosto ha citato il polo newyorkese come il modello che potrebbe fare da volano per la città partenopea. «Penso – ha detto Muti – al San Carlo, paradossalmente una delle realtà napoletane ancora poco propagandate all’estero; penso ai Girolamini, al Conservatorio; penso alla Biblioteca Nazionale, a San Domenico Maggiore: tutte queste realtà andrebbero coordinate, messe in rete, ma non in modo pasticciato, azzeccate come un francobollo. Penso a una cosa seria, grande, come il Lincoln Center di New York». E soltanto qualche settimana fa a Il Corriere della Sera Muti ha aggiunto: «A Napoli c’è tutto un centro culturale tra teatro, Conservatorio dove ci sono migliaia di partiture dimenticate che aspettano di essere riscoperte, Biblioteca dei Girolamini: può essere connesso a favore di un grande centro d’arte. Il passato può diventare il centro propulsore per il futuro. È la città – continuava il maestro – dove Mozart volle che fosse riconosciuto il suo genio. In una lettera al padre scrive: anche se non pagano molto, un’esecuzione a Napoli ne vale 100 in Germania».

Anche il professor Marco Salvatore, scienziato e presidente della Fondazione Il sabato delle idee, ha rilanciato la proposta in occasione degli Stati Generali per la cultura della Regione Campania. Potrebbe funzionare? Il Lincoln Center for The Performing Arts si trova a New York, nell’Upper West Side, tra la Columbus Avenue e l’Amsterdam Avenue. Funziona da organo di regia e coordinamento per 13 strutture dislocate in una trentina di edifici. Il centro offre corsi di studio e specializzazione in tutti i campi delle arti e un cartellone da oltre cinquemila eventi all’anno per circa cinque milioni di visitatori. L’istituto finanzia anche il Lincoln Center Cultural Innovation Fund, un programma di sovvenzioni che punta a valorizzare ed estendere la pratica delle arti nei quartieri popolari della Grande Mela come Central Brooklyn e il South Bronx.

La storia comincia negli anni Cinquanta, quando il Comitato per lo sgombero dei bassifondi del comune è presieduto da Robert Moses. Uno che, a seconda dei pareri, viene definito “The Master Builder” o “The Master Destroyer”. In ogni caso, è l’uomo che ridisegna lo skyline di New York. Per i suoi sopralluoghi va in giro in limousine e con un folto stuolo di collaboratori. Nel 1955, durante la sua presidenza del Comitato, viene approvato il rinnovamento della Lincoln Square. Più della metà dei 184 milioni e mezzo di dollari del primo finanziamento viene messo dal filantropo John D. Rockefeller III, che sarà il primo presidente del Center e che decide di riunire in un solo luogo geografico di Manhattan varie istituzioni sparpagliate in diversi punti della metropoli.

Il presidente statunitense Dwight D. Eisenhower mette la prima pietra nel 1959 e presenta il progetto come «un simbolo di pace, uno strumento di comprensione dei popoli». Da quel momento, per circa trent’anni, vanno avanti i lavori commissionati ad architetti di fama mondiale. Tra questi anche l’anconetano Pietro Belluschi, che lavora alla Juillard School. Nel 1962 il taglio del nastro alla presenza di Jacqueline Kennedy con un concerto di Leonard Bernstein, autore anni prima della colonna sonora del musical West Side Story che raccontava proprio lo sventramento e la ricostruzione dell’Upper West Side.

Per capirci qualcosa in più, su come funziona e su com’è strutturato il Lincoln Center, Il Riformista ha chiesto ad Antonio Ciacca, pianista, compositore e direttore d’orchestra di fama internazionale che definisce la sua esperienza presso il Center «meravigliosa». Ciacca è cresciuto a Volturino, nel foggiano, e ha studiato a Bologna e poi negli Stati Uniti. Da due anni ha assunto la carica di direttore artistico del Festival Internazionale del Jazz di La Spezia. Al Lincoln Center è docente alla Juillard School ed è stato direttore della programmazione jazzistica sotto la direzione di Wynton Marsalis. «Ogni istituzione – spiega – si muove nel proprio ambito di competenza artistica. Tra queste c’è circolazione interna di risorse umane e si fanno progetti in co-produzione come con l’album All Rise di Marsalis, una collaborazione pluripremiata con il Jazz at Lincoln Center. Inoltre – continua – tutti collaborano affinché nel calendario comune non si sovrappongano eventi importanti come le serate di Gala o le prime».

Per quello che riguarda un Lincoln Center a Napoli, e in Italia, il maestro Ciacca spiega che innanzitutto bisogna tenere presente delle differenze sostanziali tra i due Paesi. «Gli USA – argomenta – sono un paese anglosassone dove la contribuzione è privata ed è enorme rispetto ai paesi latini dove le istituzioni vivono soprattutto di fondi pubblici. In Italia – continua – è la politica che decide i management. Qui negli USA è il merito. La politica è tenuta fuori».

E allora da dove si dovrebbe partire per costruire una realtà simile a Napoli? «Il primo passo – spiega Ciacca – è individuare una figura manageriale al di fuori della logica clientelare italiana. Un professionista al corrente dei sistemi economici sui quali si fondano i grandi enti. Il secondo è individuare un board di altissime personalità della cultura cittadina che da un lato attragga finanziamenti e dall’altro garantisca un comportamento eticamente ineccepibile. Se scorrete i nomi del board del Jazz at Lincoln Center non solo trovate i più prestigiosi avvocati e banchieri di Manhattan ma personalità di rilievo assoluto nel campo della cultura come per esempio l’immenso Henry Louis Gates, insegnante ad Harvard, e il compianto Albert Murray, storico e sociologo e biografo di Count Basie. E poi, quasi dimenticavo ci vuole un John D. Rockefeller». E quello a Napoli ancora deve nascere.

Mentre ci sono il Teatro San Carlo, il Conservatorio, la Biblioteca Nazionale. Non si potrebbe, per ovvie ragioni, trasferirli tutti in un unico luogo come è successo alla Metropolitan Opera, al New York City Ballet, al New York Philarmonic. Ma in uno stesso hub, in un unico cartellone e in collaborazioni strutturate, potrebbero finalmente fare quel salto di qualità mondiale che aveva immaginato Muti. Napoli non è New York, d’accordo. Ma l’appello del maestro andrebbe comunque raccolto. E la sua idea verificata.