Anita Likmeta, imprenditrice, giornalista e saggista italo-albanese, commenta a caldo l’esito elettorale che a Tirana decreta la nuova vittoria del socialista Edi Rama: «La sua riconferma plebiscitaria segnala un sistema in cui il voto non serve a scegliere, ma a ratificare l’ordine. Quando i confini tra consenso, paura e adattamento si annullano, il potere non ha più bisogno di imporsi: basta che la macchina funzioni». Da pochi giorni il suo L’Aquila nera, edito da Marsilio, è in tutte le librerie.
Cosa unisce e cosa separa le due sponde dell’Adriatico, nella storia?
«L’Adriatico è stato, nel corso dei secoli, più un ponte che un confine. Una cerniera porosa tra mondi che si osservano, si influenzano, talvolta si illudono, e spesso si fraintendono. Nel mio saggio-memoir, L’Aquila Nera, ho tentato di raccontare questa tensione attraverso la lente della mia storia familiare, intrecciata con quella collettiva. La mia famiglia, come tante altre, ha abitato quel margine dell’Adriatico in cui la Storia non era una narrazione lineare, ma un accumulo di sovrapposizioni e di traumi: dall’occupazione fascista dell’Albania al dopoguerra, fino al collasso del comunismo e alle fughe disperate degli anni ’90. Quello che separa le due sponde non è solo la geografia: è un’asimmetria di sguardo. L’Italia ha spesso guardato verso l’altra riva con un misto di paternalismo e rimozione, dimenticando la propria responsabilità storica nella regione, e rafforzando un senso di marginalità in chi, come me, è cresciuto con un’identità che non aveva diritto di cittadinanza piena né di qua né di là. Eppure, la memoria è un campo di possibilità. Se coltivata con rigore e giustizia, può diventare un atto di riconciliazione».
Il passato coloniale italiano in Albania è poco noto, poco studiato. C’è qualcosa che gli italiani tentano di rimuovere?
«Il colonialismo italiano in Albania è stato uno dei più ambigui d’Europa: non un’invasione dichiarata, ma un’annessione travestita da alleanza. La retorica fascista non parlava di conquista, ma di “fratellanza”, di “comunità di destino”. È proprio questa ambiguità ad averne permesso la rimozione in Italia e in Albania. In Italia perché è più comodo ricordare la Libia o l’Etiopia, dove il dominio era esplicito. In Albania perché resta doloroso ammettere di aver ceduto sotto il peso di una promessa che si è rivelata occupazione. La violenza del fascismo fu anche psicologica: entrò parlando italiano e lasciò dietro di sé la vergogna di aver detto sì».
E gli albanesi che furono costretti a dire di sì al fascismo e poi hanno attraversato, nel corso del Novecento, tutti i regimi possibili, che cosa sono oggi?
«Sono un popolo in apnea storica: hanno resistito, ceduto, creduto, disertato. Ma oggi sono ancora sospesi, in cerca di una voce stabile. Non sono né vittime né carnefici: sono ciò che resta dopo la caduta dei sistemi, quando la libertà arriva senza istruzioni. E chiedono una cosa sola: essere finalmente ascoltati, non solo analizzati».
Cosa rappresenta l’Italia per gli albanesi?
«L’Italia è, per gli albanesi, un’idea prima ancora che una nazione: è la soglia dell’Occidente, il profumo della libertà quando il comunismo rendeva l’aria irrespirabile. È cultura amata, bellezza sognata, lingua desiderata. Ma è anche un fratello minore che si crede maggiore: talvolta affettuoso, talvolta paternalista. E l’Albania — con la sua storia più antica, la sua lingua più arcaica — continua ad amare, pur sapendo di non essere del tutto ricambiata alla pari».
E per lei, in particolare?
«Sono nata in una lingua e rinata in un’altra. L’Albania è l’origine, l’Italia la rielaborazione. Vivo nel margine che le separa: non un vuoto, ma un luogo d’attrito. In me coesistono due genealogie culturali che si osservano, si fraintendono, a volte si giudicano. Io abito quella tensione. La mia scrittura non cerca un compromesso, ma un contatto autentico, un luogo in cui le due memorie possano finalmente riconoscersi senza dominarsi. Scrivo per dare forma a questo scarto, e forse, un giorno, per renderlo pace».
I rapporti di Edi Rama con Giorgia Meloni sono forti, malgrado la distanza politica. Che cosa rappresenta quella loro amicizia?
«È un’amicizia di superficie e di convenienza. Rama ha bisogno di sponde forti nell’Europa conservatrice per alimentare la narrazione del “passaporto europeo”, oggi utile alla sua propaganda. Ma l’Europa non espande quando è sotto assedio. E dietro i sorrisi diplomatici, resta la distanza tra un progetto di governo e una strategia di sopravvivenza».
Cosa pensa dell’hotspot per l’identificazione a Shengjin e del centro di trattenimento a Gjader, voluti da Meloni?
«È un errore storico e morale. L’Albania, un tempo esclusa e umiliata dall’Europa, oggi accetta di diventare il recinto esterno dei suoi fantasmi. È paradossale: un popolo che ha conosciuto la fuga presta il proprio territorio a contenere quella altrui. Per Meloni è strategia, per Rama è subalternità travestita da sovranità».
Si voterà tra poco un referendum sulla cittadinanza che dimezzerebbe i tempi per acquisirla.
«Una democrazia non si misura dal numero delle cittadinanze concesse, ma dal rigore con cui riconosce l’appartenenza. L’Italia non ha bisogno di scorciatoie identitarie, ma di percorsi credibili. Non è nei dieci anni di permanenza il problema: è nel limbo amministrativo che segue, nella sospensione della possibilità. Dimezzare i tempi dovrebbe significare sfoltire le opacità dello Stato, non banalizzare l’ingresso nella cittadinanza. L’identità non si concede: si costruisce. E ogni sistema politico serio dovrebbe saper distinguere l’urgenza demografica dalla superficialità simbolica. La cittadinanza è un patto, non una promozione».
