Caro Claudio,
una delle pagine più dure vissute nei tanti anni della militanza è stata sicuramente quella della lunga stagione di Tangentopoli: Mani pulite, come fu chiamata. Io allora ero parlamentare alla seconda legislatura. Fu una legislatura breve, durò dal 1992 al 1994 e poi si andò a elezioni anticipate, fra l’altro con una nuova legge elettorale che premiava i collegi uninominali, e ridusse fortemente la nostra presenza soprattutto al Nord, dove la crescita della Lega fu l’elemento decisivo per la vittoria del centro destra.
Dall’inizio di Mani pulite, ogni giorno a Montecitorio le agenzie – non c’erano ancora i social – sputavano notizie di avvisi di garanzia che colpivano nel mucchio dei parlamentari della maggioranza: DC, PSI, PSDI in particolare, ma non solo. Per noi la questione morale era argomento ultrasensibile dopo l’intervista di Berlinguer a Scalfari: risaliva al 1981, 10 anni prima, ma aveva segnato in modo indelebile la cultura della sinistra comunista. Berlinguer in quella intervista sollevava un problema serio: quello dell’occupazione di ogni ganglio dello stato da parte della cosiddetta partitocrazia, con gravi danni per il funzionamento delle istituzioni democratiche. Il punto è che per lui questa era una questione morale, non una questione politica che andava affrontata in quanto tale. L’ averla invece piegata verso l’etica dei comportamenti politici fu un errore grave.
Come si vide poi in tutta la vicenda di Tangentopoli dove, come PCI (anzi allora c’era il PDS), pur di salvarci l’anima facemmo errori uno dopo l’altro. Io ricordo perfettamente il clima. A fine settimana tornavo nel mio collegio, Bergamo, dove si tenevano attivi infuocati con centinaia di militanti che chiedevano a gran voce al loro parlamentare di giurare che il nostro partito non era coinvolto, e che se c’era qualche mela marcia si doveva fare immediata pulizia. E così il gruppo dirigente scelse di alzare la bandiera della nostra superiorità morale. Il primo errore fu quello di non prendere sul serio il discorso di Craxi alla Camera, in cui sostanzialmente il leader socialista mise sul piatto il problema dei finanziamenti illeciti ai partiti, a tutti i partiti; una cosa, disse, di cui tutti erano a conoscenza, e che andava affrontata alla radice, con una profonda riforma concordata fra tutti. Vale la pena di riportare il passaggio decisivo per intero: “La verità è che gran parte del finanziamento politico è irregolare o illegale, e ciò è avvenuto in una fase in cui si è ritenuto che questo fosse un male necessario. O si cambia o tutto il sistema crollerà”. Parole profetiche, ma a quel punto apriti cielo.
Craxi era la bestia nera del PCI dai tempi di Berlinguer e quella sembrò un’intollerabile chiamata in correo. Tanto è vero che, quando la Camera rifiutò l’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi, Occhetto decise di ritirare l’appoggio al Governo che stava nascendo con l’incarico a Ciampi, con il compito di mettere mano a una situazione di potenziale disgregazione del sistema politico. Il secondo errore fu quello di schierarsi a fianco della magistratura senza se e senza ma, facendo del pool di Milano e di Di Pietro degli eroi moderni e chiudendo gli occhi sugli abusi e la cancellazione di ogni garanzia che in quel periodo la magistratura utilizzò largamente. Alcuni arrivarono al suicidio, altri affrontarono processi di anni, spesso conclusisi con assoluzioni o condanne molto parziali. Ma bastava l’avviso di garanzia, teoricamente un atto a favore dell’indagato, per gridarne anche da parte nostra la colpevolezza e condannarlo alla morte politica. Noi invece sopravvivemmo grazie al silenzio del compagno Greganti e al favore della magistratura.
Ma quella storia ci ha segnato in modo indelebile, rendendoci per anni complici – e ancora oggi la sinistra lo è – della cancellazione delle garanzie costituzionali a favore di chi viene accusato, e consentendo alla magistratura di occupare uno spazio che la Costituzione non le assegna, esondando ben oltre quella divisione dei poteri che è scritta nella Carta. Addirittura siamo arrivati a punto di assistere a scioperi dei magistrati contro riforme varate dal Parlamento, peraltro con l’appoggio della sinistra. E la lunga stagione dell’antiberlusconismo a tutti i costi, praticamente il fulcro della postura dell’opposizione per un lungo periodo, con Repubblica a menare la grancassa, ha solo peggiorato le cose. Il moralismo ha soppiantato la politica, e il senso di superiorità ha separato la sinistra dal Paese. Il risultato è stata la dissoluzione della struttura storica della democrazia italiana e l‘affermarsi del populismo più becero come strumento di lotta politica.
E poi, andiamo al nocciolo, eravamo davvero innocenti? Non sono mai stato addentro alle cose segrete del mio partito, e sicuramente di finanziamenti se ne occupavano in qualche segreta stanza. Ma ho rivestito qualche incarico di responsabilità, fui ministro del governo ombra che Occhetto varò durante la sua segreteria negli anni ’89, ’90, ’91, e ricordo bene le ricche sottoscrizioni che per esempio venivano dalle Cooperative e da diverse imprese private legate agli appalti pubblici. Registrate come sottoscrizioni, ma di fatto pagate per acquistare benevolenza e un occhio di riguardo. Certo non ci fu la corsa al finanziamento dei singoli o delle correnti e tutto andava nobilmente al Partito. Ma soprattutto contò il fatto che il compagno Greganti tenne duro.
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Caro Chicco,
l’esplosione di Mani Pulite la ricordo bene perché nella breve legislatura 1992-1994 ero capoufficio stampa del gruppo parlamentare alla Camera del PDS, presieduto da D’Alema, e quell’esperienza la considero ancora adesso come una specie di Master ad Harvard di scienza e di comunicazione politica. Ero tra quelli che passavano intere giornate a raccogliere le notizie degli avvisi di garanzia che arrivavano da Milano, leggendo negli occhi dei parlamentari lo stupore, lo sdegno per quanto stava accadendo, ma soprattutto un crescente smarrimento. Uomini che fino al giorno prima si aggiravano nelle stanze del potere con compiacimento, a volte con arroganza e sicumera, ora li vedevi quasi strisciare lungo i corridoi. Continuavano ad essere inseguiti da frotte di cronisti, ma per evitarli, invece di riceverli con sussiego, stesi su qualche divano del Transatlantico, come accadeva prima (non parliamo di quello che accade oggi, ora i politici vanno letteralmente a caccia dei giornalisti per esibirsi…).
In uno di quei giorni concitati, di prima mattina, mentre gustavo il delizioso ciambellone della buvette della Camera (ricordi che bontà?), venni a sapere che era in arrivo un avviso di garanzia per Claudio Martelli, ministro di Grazia e Giustizia. Fu forse il momento del vero salto di qualità dell’inchiesta: colpendo un ministro del calibro di Martelli, diventava sempre più chiaro l’obiettivo destabilizzatore (direi eversivo) del lavoro del Pool di Milano. Mi precipitai negli uffici del gruppo per dare la notizia al capo. Lo feci con quel tanto di eccitazione che derivava dall’avere una notizia preziosa, ma anche (forse) con una certa soddisfazione: in fondo era un avversario ad essere colpito, ed io – ingenuamente, molto ingenuamente – ne vedevo i risvolti politici, positivi per noi. Fui gelato dalla risposta di D’Alema. Non fu freddo e compassato come al solito, ma quasi mi aggredì: “Che dici? C’è poco da esultare! Capisci o no che ci stanno mettendo in mezzo tutti?”.
Non ricordo se in quella occasione usò la parola “golpe” per definire l’azione del Pool, ma la notizia lo scosse decisamente. Peraltro, anche allora, al buon D’Alema si potevano attribuire molte colpe, ma non quella di essere un giustizialista. Il punto è che in lui, come in tutto il gruppo dirigente del partito, era già scattata da mesi la tentazione di far fuori l’intero pentapartito per via giudiziaria, per potersi così aprire la strada al governo. La logica era quella machiavellica (povero Principe…) de “il fine giustifica i mezzi”. D’altronde, con tanti governanti candidati al gabbio, stampa e opinion leader davano per scontato che la sinistra sarebbe presto sbarcata al governo con tutti gli onori. Quindi che cosa vuoi che contassero i principi costituzionali, democratici e garantisti? Quelli entravano in funzione solo per i nostri eroi, a partire da Primo Greganti, la cui sola evocazione bastava per inorgoglire militanti, dirigenti e parlamentari.
Noi prendevamo i soldi per il partito, nessuno dei nostri si arricchiva, mentre per i socialisti faceva testo la frase di Formica: “Il convento è povero, ma i monaci sono ricchi”. Cioè i socialisti erano ladri, rubavano per sé, noi invece rubavamo per fare avanzare i fulgidi ideali del socialismo, quello vero. Che però era stato sepolto qualche anno prima con la caduta del Muro… Va beh, mi fermo qui. Meno male che dopo pochi mesi irruppe sulla scena Silvio Berlusconi e risolse la querelle, evitando la catastrofe della carovana (la chiamavamo così, non potevamo che andare a sbattere…) di Occhetto al governo. Anche con il Cavaliere c’erano sempre di mezzo i soldi. Ma almeno erano i suoi.
