Questo è per stessa ammissione della Corte d’Assise “un processo straordinario”. Il giudizio pende nei confronti di T.S., A.K.M.I., U.H. e M.I.A.S., accusati di aver sequestrato tra il 25 gennaio ed il 2 febbraio 2016 il ricercatore italiano Giulio Regeni, e il solo M.I.A.S. di avergli inflitto con crudeltà gravissime lesioni sino a cagionargli la morte. Dal 20 febbraio 2024 è stata avviata l’istruttoria dibattimentale in assenza degli imputati in conseguenza della “mancata assistenza dello Stato di appartenenza”.
L’intero processo, sviluppatosi in quasi 30 udienze e pressoché prossimo alla conclusione, si è celebrato nell’assordante silenzio dei soggetti che ne sarebbero i protagonisti, con evidente pregiudizio – più volte lamentato dai difensori – in termini di facoltà di replica rispetto all’ampio compendio, orale e documentale, offerto dal Pubblico Ministero e dalle parti civili, uniche parti cui è stata possibile, di fatto, l’iniziativa probatoria. Un contraddittorio, quindi, solo parziale, con un’attività defensionale – per usare le parole della Corte – “interamente esaurita nella valutazione critica e puramente cartolare dell’attività investigativa”, “senza alcuna possibilità di contraddire concretamente sulla bontà, correttezza e sull’univocità del dato probatorio, essendo mancata in termini assoluti la possibilità di un qualsiasi contatto con il rispettivo assistito”.
In questo quadro già difficile si è da poco inserito un tema nuovo, che pone un ulteriore ostacolo al già menomato – se non annichilito – diritto di difesa: quello dell’impossibilità di accedere al patrocinio a spese dello Stato e, per suo tramite, alla nomina di un consulente tecnico. E non di un consulente tecnico qualsiasi: “Un interprete di lingua araba con cui assicurarsi il contraddittorio in occasione del rinnovo peritale delle traduzioni, disposto dalla Corte, dei verbali in lingua araba”. Di qui il fulcro della questione: in assenza dell’imputato non è stato consentito ai difensori d’ufficio di accedere al gratuito patrocinio, istituto che richiede, prima ancora della verifica del tetto massimo di reddito, la sottoscrizione della domanda da parte dell’interessato.
E non è una situazione sovrapponibile a quella dell’indagato o imputato cui sia stato nominato un difensore d’ufficio e che, per negligenza, incuria o disinteresse, pur debitamente informato, non si attivi per accedere al gratuito patrocinio. Diversa è, infatti, la condizione di chi “non sia stato affatto portato a conoscenza del relativo diritto per ragioni da lui indipendenti, rimesse ad una decisione conseguente alla mancata assistenza dello Stato di appartenenza, in qualche modo subita incolpevolmente dagli stessi imputati”. Perciò non colgono nel segno, per la Corte, le obiezioni dell’accusa secondo cui si andrebbe a scardinare l’intero istituto, introducendo nell’ordinamento una presunzione iuris et de iure di ammissione al patrocinio laddove vi sia una difesa d’ufficio, a prescindere dalla prova dell’incapacità reddituale.
Così ristretto il campo della quaestio, il rinvio alla Corte Costituzionale è parso al giudice di merito indispensabile a fronte della carenza di strade percorribili: da un lato si dovrebbe imporre “un onere economico ingiustificato” al difensore, tenuto a provvedere a proprie spese – e presumibilmente senza futuro recupero delle stesse – alla parcella del consulente di parte; dall’altro si arriverebbe a “costringerlo ad una difesa condizionata e sminuita rispetto alle possibilità di esercizio di cui dispongono le restanti parti processuali, pubblica e privata”. Né appare percorribile la terza strada individuata dalla Corte Costituzionale già pronunciatasi sull’assenza degli imputati, ovverosia la restituzione nelle loro facoltà processuali se dovessero comparire: “Da un lato si tratta di situazione del tutto teorica e virtuale, priva di agganci al reale, anche a fronte del successivo atteggiamento delle Autorità egiziane; dall’altro lato non vi è ragione perché la difesa debba essere privata nel presente processo delle facoltà consentite dall’ordinamento e non le possa sfruttare integralmente”. La facoltà di avvalersi di un consulente di parte si iscrive, dunque, “a pieno titolo sotto più profili nell’area di operatività della garanzia di cui all’art. 24 Cost. e privarne il non abbiente significa negargli il diritto di difendersi su aspetti essenziali”.
Ma non solo: oltre a ledere il diritto di difesa, per la Corte si introduce una percepibile ed inammissibile disparità tra le parti in un rito di tipo accusatorio come il nostro ove “il pubblico ministero può scegliere il proprio consulente tecnico senza che costui possa rifiutare l’incarico” e “avvalersi dei migliori esperti, senza limitazioni di onorari, mentre la parte privata può sentirsi opporre un rifiuto, motivato dalla prevedibile esiguità del compenso, erogabile a proprie spese dal difensore, se non dalla gratuità, quand’anche taluno degli esperti ne accettasse la nomina”. Se così è, ogni qual volta il difensore “non sia posto in condizione di confutare efficacemente tramite propri esperti le conclusioni dei consulenti dell’accusa vi è violazione del diritto alla parità delle parti e alla possibilità di confutare adeguatamente ogni elemento di prova a carico: valori tutelati a livello sovranazionale quale profilo specifico del diritto di difesa e dell’equo processo convenzionale”.
La questione, rilevante e non manifestamente infondata, è stata quindi rimessa alla Corte Costituzionale con sospensione del procedimento in corso.
