Li chiamano Aghazadeh, ovvero i figli degli alti funzionari del regime degli Ayatollah. Si sono arricchiti a nepotismo, privilegi e connessioni politiche. Il termine è entrato nel linguaggio comune della società persiana – l’opposizione silenziosa alla dittatura e che ci tiene a non farsi etichettare come banalmente “iraniana” – per indicare una casta di privilegiati che tiene le fila dell’economia del Paese.
A titolo di esempio, al clan Khamenei – composto dal padre, la Guida suprema Ali, e dai suoi cinque figli – viene attribuito un impero economico stimato tra i 90 e i 200 miliardi di dollari. Un’attività tentacolare, che va dalle charity religiose a proprietà immobiliari. A quasi due mesi dagli attacchi di Israele e Stati Uniti, ciò che è più imperscrutabile in Iran non è la salute dell’establishment o quanto sia stato effettivamente arrestato (non annientato) il programma nucleare, bensì l’economia. Produzione ed esportazione di petrolio, minerali e loro derivati restano l’ossatura delle esportazioni. «La priorità assoluta del governo è oggi garantire il flusso e l’esportazione di greggio», spiega una fonte raggiunta a Teheran e che chiede di restare anonima.
Ed è proprio il mercato petrolifero quello che gli Aghazadeh gestiscono in maniera monopolistica. A loro vengono garantiti vantaggi esclusivi, nelle operazioni finanziarie e nelle concessioni, da cui la popolazione non percepisce alcun beneficio. Vero è che la guerra dei dodici giorni ha gravato sull’isolamento internazionale del Paese, spingendo investitori esteri e partner economici ad adottare un atteggiamento attendista. «La gran parte delle interazioni economiche con l’estero è sospesa: finché non ci sarà maggiore chiarezza politica, nessuno si muoverà», spiega l’interlocutore. Tuttavia, ciò non sembra mettere in difficoltà le finanze del regime, che restano protette grazie a una gestione centralizzata e alla rendita derivante da settori strategici. Il modello iraniano ricorda da vicino quello adottato durante la guerra con l’Iraq di Saddam Hussein negli anni Ottanta. Anche allora, in condizioni di isolamento estremo e sotto sanzioni, il regime riuscì a sopravvivere. Da un lato, facendo leva sulle esportazioni di petrolio e minerali. Dall’altro, sensibilizzando l’opinione pubblica in suo favore, convincendola ad accettare un’esistenza di rinunce e sacrifici per una giusta causa: la resistenza e poi la vittoria contro Bagdad.
I settori più resilienti restano quelli energetici, in particolare grazie alla collaborazione tecnologica e logistica con Russia, Cina e India. La National Iranian Oil Company (Nioc) e la National Iranian Drilling Company (Nidc) restano operative. Per conservare una posizione sui mercati, Teheran è costretta a vendere petrolio sotto i prezzi di mercato. In alcuni casi, acquirenti strategici ottengono deroghe o permessi indiretti dagli Stati Uniti, a condizione che parte dei profitti sia redistribuita in favore di interessi occidentali. Al contrario, le cosiddette “mother industries”, come siderurgia, cemento e grandi impianti industriali, risultano fortemente penalizzate. Oltre alle sanzioni, il problema è rappresentato dalla corruzione e dalla cattiva gestione degli Aghazadeh, piazzati ai vertici delle imprese in quanto “figli di” e per competenza.
«Cattiva gestione, opacità nei bilanci e monopolizzazione delle risorse da parte degli apparati di potere impediscono una crescita equa», ci spiegano dalla capitale iraniana. È quindi evidente che il collasso del regime aprirebbe prospettive radicalmente diverse. «In presenza di una transizione politica verso un’economia aperta e trasparente, il Paese potrebbe diventare una potenza economica globale». Tuttavia, esistono dubbi sul fatto che gli attori globali, in particolare gli Stati Uniti, vogliano davvero vedere emergere un Iran indipendente e liberato dalla teocrazia sanguinaria che lo soffoca dal 1979. «Il mantenimento dello status quo può servire per alimentare interessi esterni: petrolio scontato, contenimento geopolitico e opportunità economiche derivate dalla gestione delle stesse sanzioni».
I Paesi del Golfo, partner preferenziali dell’Amministrazione Trump, temono la concorrenza di Teheran. Ne conoscono le potenzialità. Ecco perché fa loro comodo aver l’Iran fuori dai giochi. Per questo, la nostra fonte è convinta che lo stop al programma nucleare sia davvero determinante per la sopravvivenza del regime. In un complesso sistema di equilibri di potere, un ayatollah può tornare comodo.
