Quasi 15 anni da direttore generale e commissario di aziende sanitarie in buona parte del Veneto, poi per tre anni direttore del welfare in Lombardia. Oggi direttore amministrativo di AIFA, l’agenzia del farmaco. Giovanni Pavesi ha vissuto a lungo la “macchina” della sanità veneta dal suo interno, ma ha anche avuto modo di poterla raffrontare a quella lombarda.
Al di là dei numeri che ne decretano l’eccellenza, con che dinamiche si è sviluppata?
«Sono stati anni di trasformazioni molto veloci. Il Veneto ha avuto una capacità di anticipare, di interpretare le situazioni più efficace di altre regioni. Gli elementi di criticità e di evoluzione sono stati: prima una crescita impetuosa della cronicità della nostra popolazione al tema delle malattie croniche collegate all’invecchiamento che necessitavano di un’attività territoriale più strutturata. Il secondo è una fortissima accelerazione dell’aggiornamento tecnologico negli ospedali, strumenti di diagnostica per immagine, laboratori. Il terzo elemento, soprattutto negli ultimi anni, è stata la carenza di figure professionali, soprattutto infermieri e alcune specialità di medici, che hanno messo in crisi tutta l’organizzazione. Da ultimo una crescita spesso inappropriata della domanda di salute. Quindi cronicità, tecnologia, carenza di medici, crescita della domanda sono stati gli elementi che hanno caratterizzato il cambiamento dei sistemi sanitari».
C’è un tema che viene spesso evidenziato, che è quello di alcune criticità nella cosiddetta medicina di territorio, ovvero la concentrazione di eccellenza in grandi centri e poi territori periferici che invece rimangono scoperti, dove spesso si vivono disagi.
«Lo spacchetterei su due fronti. Uno, il tema della deospedalizzazione. Negli ultimi 15-20 anni è drasticamente calato il numero di posti letti ospedalieri e il Veneto è stato molto coraggioso in questa operazione. La deospedalizzazione è passata anche attraverso una capacità politica di chiudere piccoli ospedali, che non è un’operazione banale, ma è stata fatta in maniera complessivamente indolore. Cito la provincia di Verona con quasi 900 mila abitanti: Isola della Scala, Soave, Malcesine, Bussolengo, Nogara, Bovolone, ospedali chiusi o convertiti ad attività non acute di territorio. Alla deospedalizzazione si accompagnava la necessità di un’organizzazione più capillare del territorio. Il Veneto è stato capofila nelle forme di aggregazione dei medici di base, la medicina in gruppo ha trovato situazioni interessanti, i medici che lavorano in gruppo, la condivisione della cartella. Oggi mostra criticità perché mancano i medici di base. Però il Veneto è una delle poche regioni in Italia in cui in qualunque ospedale per acuti tu entri, trovi un livello di assistenza medio alto molto omogeneo. Abbiamo le punte d’eccellenza, Padova, Verona, Vicenza, però mediamente l’ospedale a cui approda il cittadino è un ospedale molto sicuro, molto attrezzato e con personale di alto livello».
Anche in Veneto si vive come in Lombardia il problema delle liste di attesa.
«Il tema delle liste d’attesa è generale. C’è un problema di maggiore efficientamento dell’orario del medico all’interno dell’ospedale. Il Veneto per primo esplora l’idea degli ospedali di notte, la possibilità di fare esami diagnostici anche nei tardi pomeriggi, nei sabati, nelle serate, quindi fare in modo che strutture così complesse debbano lavorare per orari più ampi. C’è un tema da governare meglio che è quello dell’intramoenia. È giusto che il medico abbia la possibilità integrativa rispetto al proprio stipendio per l’attività oltre l’orario di servizio. Il medico va via quando ha finito l’orario di lavoro, dobbiamo trovare però meccanismi affinché il tutto sia fortemente integrato con l’attività ospedaliera. C’è poi il tema dell’appropriatezza prescrittiva. Sono confidente che anche grazie all’intelligenza artificiale riusciremo a governare dove e quando dobbiamo offrire prestazioni aggiuntive».
Sanità sul territorio vuol dire anche sistema socio-sanitario. Pure quella una macchina complessa e per certi versi fragile.
«Abbiamo una carta molto forte da giocare: l’integrazione sociosanitaria. Le strutture residenziali per anziani, le IPAB sono un elemento caratterizzante fondamentale per l’offerta. La cronicità si collega alla fragilità, alla disabilità, alla difficoltà di rendere servizi integrati al cittadino anziano. Il Veneto ha un sistema di impegnative molto intelligente che però sarà da rifinanziare. Il collegamento dal sanitario al sociale è una criticità di tutti i sistemi sanitari, nel Veneto c’è la possibilità di renderlo ancora più forte. Oggi in una casa di riposo trovi le stesse persone che 20 anni fa avresti trovato ricoverate in ospedale. Senza una rete forte di RSA, questi anziani si riverserebbero sugli ospedali».
Poi c’è la questione, sempre delicata, del ruolo della sanità privata. C chi paventa una privatizzazione progressiva.
«In realtà il Veneto ha una presenza molto limitata rispetto alle altre regioni del privato accreditato, ma molto qualificata. Abbiamo pochi ospedali privati accreditati, ma quelli che ci sono, sono di alto, spesso altissimo livello e fanno un servizio vero di integrazione al sistema».
Un sistema virtuoso. Se rimane così.
«Va tutelato. È un equilibrio che bisogna mantenere».
