La guerra che la Russia ha scatenato contro l’Ucraina non è soltanto un conflitto geopolitico, militare o territoriale. È anche, e forse soprattutto, uno scontro tra generazioni. Da una parte ci sono i vecchi uomini del potere russo, plasmati dall’esperienza sovietica e impregnati della mentalità del KGB, che vedono nel crollo dell’Unione Sovietica non una liberazione, ma una catastrofe storica. Dall’altra parte ci sono le nuove generazioni ucraine, formatesi in un contesto europeo, democratico e pluralista, che guardano a Bruxelles e a Berlino come orizzonti naturali del loro futuro, e non certo a Mosca o a un improbabile ritorno dell’impero.
Vladimir Putin, che oggi ha 75 anni, incarna perfettamente il volto di questa Russia conservatrice, revanscista e autoritaria. La sua carriera si è formata nei ranghi del KGB, il servizio segreto simbolo della repressione e del controllo sociale dell’URSS. Il suo immaginario politico affonda le radici in un’epoca in cui la dissidenza era punita con il gulag e l’informazione era un monopolio di Stato. Putin non ha mai fatto mistero di considerare la dissoluzione dell’Unione Sovietica “la più grande tragedia geopolitica del XX secolo”. Il suo entourage è composto da uomini della stessa generazione: coetanei cresciuti nel culto del Partito/Stato, della disciplina ideologica e della verticalità del potere. Sono questi gli ex giovani “reduci del Komsomol”, della burocrazia sovietica e dell’apparato di sicurezza, oggi trasformati in oligarchi, generali e consiglieri, che sognano una restaurazione imperiale sotto nuove forme.
Nel fronte opposto c’è Volodymyr Zelensky, che di anni ne ha 47, e rappresenta una generazione che ha vissuto la caduta del Muro di Berlino da adolescente. Zelensky appartiene a una classe politica che non ha nostalgia dell’URSS, semplicemente perché non ne ha memoria diretta o positiva. Come molti suoi coetanei, è cresciuto in un’Ucraina che ha cercato di emanciparsi dal controllo russo, pur tra mille difficoltà economiche e instabilità politica. La sua formazione culturale è figlia dell’apertura al mondo occidentale: conosce l’inglese, è abituato a un dibattito pubblico plurale, è cresciuto tra media indipendenti e social network, non nei corridoi oscuri di un comitato centrale.
Questo divario generazionale non è solo anagrafico: è simbolico, culturale, esistenziale. I giovani ucraini hanno viaggiato in Europa, hanno studiato in Erasmus, lavorato in aziende internazionali, costruito startup e movimenti civici. Hanno fatto due rivoluzioni in meno di vent’anni – quella arancione nel 2004 e Euromaidan nel 2013 – per riaffermare la loro volontà di vivere in un paese libero e sovrano. In queste proteste non c’era solo una richiesta di indipendenza politica, ma anche un rifiuto radicale di un modello autoritario e corrotto, incarnato proprio da quello che Putin cerca oggi di imporre con la forza.
È interessante osservare che, nonostante i legami storici, linguistici e religiosi tra Russia e Ucraina, oggi la distanza tra i due popoli sia diventata abissale. Molti ucraini parlano ancora russo, ma non si sentono affatto russi. L’ortodossia religiosa, un tempo elemento di comunanza, si è divisa: il Patriarcato di Mosca è ormai visto in Ucraina come un braccio ideologico del Cremlino. L’identità nazionale ucraina si è rafforzata proprio in opposizione alla pressione russa, anche tra chi, fino a pochi anni fa, non si considerava particolarmente patriottico.
La guerra ha accelerato questa frattura generazionale e culturale. I giovani ucraini stanno combattendo non solo per difendere il loro territorio, ma per proteggere uno stile di vita: la libertà di espressione, la possibilità di scegliere i propri governanti, l’apertura al mondo, l’uguaglianza davanti alla legge. Per molti di loro, arrendersi significherebbe tornare a un passato mai vissuto, ma temuto: quello di un potere centralizzato, violento e soffocante.
Nel frattempo, in Russia, si assiste a un tentativo quasi disperato di restaurare simboli del passato. La proposta di ribattezzare Volgograd con il vecchio nome di Stalingrado è più che un’operazione di toponomastica: è un segnale della volontà di riscrivere la storia e glorificare l’eredità sovietica. La nostalgia per Stalin e per l’URSS, che ancora affascina parte della popolazione anziana russa, è un elemento ideologico che serve a legittimare l’attuale regime e la sua vocazione espansionista. Ma questa narrazione trova sempre meno presa tra i giovani russi, che in molti casi preferiscono emigrare, opporsi o almeno distanziarsi interiormente da una guerra che non sentono propria.
Così, la guerra in Ucraina diventa anche lo specchio di due mondi che si contrappongono: da una parte un’aristocrazia del potere in decadenza, attaccata a miti del passato e pronta a usare la forza per conservare un’illusoria grandezza; dall’altra una nuova generazione europea che rifiuta il paternalismo e vuole decidere da sé il proprio destino. Questa è forse la sfida più profonda del conflitto: non si combatte solo per un confine, ma per un modo di intendere la vita, la libertà e il futuro. E non è detto che basteranno i carri armati per fermare il vento del tempo.
