L’odio di facciata tra Netanyahu e il Giano bifronte Erdoğan, tutti gli accordi del sultano con lo “Stato terrorista”

Quando il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan afferma che il primo ministro Benjamin Netanyahu «non è diverso da Adolf Hitler» e che «gli attacchi israeliani su Gaza sono simili alla persecuzione nazista degli ebrei durante la Shoah», non fa che assecondare i sentimenti di odio antiebraico che serpeggiano tanto tra i suoi connazionali in Turchia quanto nella regione che i due Paesi condividono. Ma è un «odio» di facciata, coram populi, dietro il quale si cela la vera essenza della politica di Erdoğan il quale, come un Giano bifronte, cambia volto e opinione a seconda dell’interlocutore.

La storia dei rapporti tra Israele e Turchia aiuta a capire come questi due Paesi condividano più di ciò che all’apparenza li divide: a cominciare dall’opposizione turca al piano di partizione palestinese delle Nazioni Unite nel 1947 per proseguire con la Turchia che diventa il primo Paese a maggioranza musulmana a riconoscere ufficialmente l’indipendenza israeliana nel 1949, aprendo così la strada all’ascesa dello Stato ebraico. Un fatto non da poco, che porterà i due Paesi a scambi commerciali sempre più intensi lungo tutto il Novecento e oltre (stessa cosa era accaduta con Teheran fino al 1979, e sarebbe anche proseguita se la Rivoluzione khomeinista non avesse riportato un’ondata cieca di antisemitismo nella regione, con i danni che ancora oggi osserviamo).

Le sinergie turco-israeliane

Sin da allora il commercio e il turismo turco-israeliano hanno continuato a prosperare. E tuttora è così. Ne sia prova la triangolazione Azerbaijan-Turchia-Israele per il petrolio: Socar, la compagnia energetica dell’Azerbaijan nonché il primo investitore straniero in Turchia (per un valore di oltre 17 miliardi di dollari), invia regolarmente petrolio a Israele attraverso Ceyhan (provincia turca di Adana), in funzione anti-iraniana. Già perché più dell’antisemitismo di facciata può la realpolitik: Teheran è il nemico da arginare per Gerusalemme come per Ankara. I quali inoltre condividono le esplorazioni offshore per gli idrocarburi nelle acque del Mediterraneo in un regime di amichevole concorrenza, in una sorta di conventio ad escludendum. Lo stesso vale per settori quali l’aviazione civile, terreno su cui Ankara e Tel Aviv hanno un’antica e consolidata partnership. Così è per la sicurezza: dalla difesa (commesse di aerei, elicotteri, carri armati) all’intelligence, i due Paesi collaborano più di quanto Erdoğan non voglia far credere. E seppure il presidente turco chiama in pubblico Israele «Stato terrorista», dietro le quinte stringe accordi anche nei momenti di minore popolarità.

Erdoğan e e gli accordi con lo “Stato terrorista”

Durante la Seconda Intifada (200-2005), ad esempio, le esportazioni turche verso Israele sono aumentate di oltre il doppio e, appena finita l’insurrezione, è stato lo stesso Erdoğan a guidare una delegazione di imprenditori turchi al cospetto dell’allora premier Ariel Sharon. Certo, le tensioni tra i due Paesi non sono mai mancate. Quelle politiche da parte turca sono però più che altro contro il sionismo, per la sua connotazione imperialista, relative a ciò che lo storico israeliano Ilan Pappé chiama «colonialismo insediativo», cioè quella forma di espansionismo israeliano per cui un gruppo di coloni si stabilisce in un territorio, spesso espellendo o sopprimendo la popolazione indigena preesistente, per creare istituzioni che mantengono e riproducono il dominio coloniale. Una strategia simile a quella che Ankara usa nei confronti di Siria e Kurdistan. Vero è che la popolazione turca ha nutrito a lungo dei sinceri sentimenti antisemiti (qui intendendo il pregiudizio, la paura e l’odio irrazionale diretto contro gli ebrei), come dimostra la progressiva espulsione degli ebrei da Istanbul.

Il graduale spopolamento delle sinagoghe (ne resistono ancora una quindicina in città, difese dalla polizia turca e seminascoste alla vista per timore di ritorsioni) si accompagna a messaggi non proprio rincuoranti. Come scrive acutamente la giornalista Marta Ottaviani, autrice di Istanbul (Paesi Edizioni, 2025) «camminando per le città turche, sulle vetrine dei negozi può capitare di leggere cartelli con scritto Sì l’ingresso ai cani, no l’ingresso agli ebrei (considerato che i cani per l’Islam sono animali impuri), così come capita di trovarsi di fronte ai cosiddetti «Venerdì della rabbia» dove i manifestanti, anziché augurare la morte agli israilliler, ossia agli israeliani, la augurano agli yahudiler, ossia agli ebrei». Questo per dire come oggi, dal Bosforo alla Cappadocia, gli ebrei vengano percepiti da molti come un corpo estraneo. Chi approda sul lato europeo di Istanbul può trovarsi spesso di fronte a gazebo allestiti per protestare veementemente contro il genocidio a Gaza e i passanti vengono invitati a descrivere in un libro bianco «ciò che provi per Gaza» e «ciò che odi di Israele».

Nonostante ciò, l’atteggiamento del governo Erdoğan è – al solito – di facciata. Se il vento consiglia di incalzare Israele (come all’epoca della Mavi Marmara), allora l’ufficio stampa del presidente vergherà righe di fuoco contro Netanyahu. Altrimenti, ci si concentrerà sui prossimi affari economici.