L’orgoglio di invecchiare e lo sguardo diverso sulla morte: il libro di Lidia Ravera e la voragine di non ritorno

Anzitutto, la “voragine”: “La vita vera andava dall’infanzia all’età dei genitori. Raggiunta quella si apriva una voragine da cui nessuno era mai tornato”. E ancora: “Sulla vecchiaia non era opportuno indagare. Mai, né da piccoli né da grandi. Le persone educate non invecchiano”. L’incipit di Age pride. Per liberarci dai pregiudizi dell’età (Einaudi Stile libero) di Lidia Ravera è raggelante, specie per un ultrasessantacinquenne. Ravera prosegue impietosa: “Oggi la vecchiaia è un fenomeno di massa. Vecchi siamo tanti. Non facciamo più notizia… i più gentili ci suggeriscono di mascherarci. Giovani no, ma giovaniformi, sì, è possibile”.

Lo stile dell’autrice – identico nei suoi personal essay come nei suoi romanzi (dove un poco si ammorbidisce nella narrazione) – è uno stile dell’intelligenza: inciso, aforistico, “imperdonabilmente” esatto. Oggi gli ultra sessantacinquenni sono il 23%, nel 1960 erano appena il 9%, e andare oltre i settant’anni era una rarità o un privilegio da benestanti. La mia prima reazione è stata di scansare il libro, di esorcizzarlo: gli anziani, perfino nei paesini, non amano frequentare i centri anziani! Però dentro questa appuntita meditazione c’è qualche verità utile per quel 23%, e non del tutto disperante. Certo, ci vergogniamo di diventare vecchi, proviamo disgusto per il fatale degrado del nostro corpo. Specie le donne, aggiunge l’autrice, che si considerano inabili alla loro funzione, “scadute”. E commenta: “È lunga l’elaborazione del lutto, per la perdita della bellezza….”. Mentre i maschi, che almeno teoricamente conservano indefinitamente la possibilità di generare – soffrono soprattutto del loro essere considerati improduttivi e socialmente non considerati.

Ravera ripercorre la propria biografia: a 26 anni si ritrovò con una bambina da proteggere: “Decisi, per lui, per lei, di revocare quella decisione un po’ farsesca di suicidarmi prima che mi scoprissero vecchia”. Poi si sofferma sul diario di Roberta Tatafiore, suicida a 67 anni , senza grandi problemi di salute, lì dove accenna al Principe Andrej di Guerra e pace, che di fronte alla morte sperimenta “una lieta e strana facoltà di esistere”. Qualche anno fa Lidia Ravera ha voluto formare, alla Casa delle donne, un piccolo gruppo di venti donne (autocoscienza?) ribattezzato “Senior caffè”. Ne è nata una “Carta dei desideri”, tra i quali “non essere costretta a comportamenti, abbigliamento, linguaggio, ruoli, relazioni, adatti, secondo il sentir comune, all’età avanzata”. E poi: “Essere libera di intrecciare relazioni con persone più giovani, senza sentirmi come l’imbucata a una festa” e ancora “essere libera di intrecciare relazioni con persone piú vecchie (quarta età?) senza sentirmi una che si affaccia sull’abisso”. La pars costruens del libro è un invito a liberarsi, anche gioiosamente, di obblighi, convenzioni, stereotipi. In fondo è la stessa libertà della letteratura, della poesia. Ma su questo tornerò tra poco.

A un certo punto ci imbattiamo nell’interrogativo davvero centrale: “Come vivremmo in una società totalmente analgesica, che sopprime mitiga o nega la sofferenza? Tutti giovani, tutti belli, tutti leggeri sani e lieti, in corsa verso l’anestesia generale?”. Già, se davvero l’amore di sé (ben diverso dal narcisismo) è una meravigliosa eresia che attraversa la storia dell’Occidente, occorre capire come ci si ama e cosa si ama di sé. Un conto è amarsi soltanto come sani ed efficienti, lieti e leggeri, competitivi ed eternamente giovani e belli, altro conto è amare la propria fragilità e vulnerabilità (il proprio decadimento fisico), amarsi dunque anche come imperfetti, deboli, a volte depressi, come “creature”, insomma amare ciò che veramente ci rende umani (il fascismo, di ogni tempo e luogo, rimuove precisamente questa debolezza originaria dell’essere umano).

La questione del limite. Oggi, nella “cultura del gender”, si dischiudono possibilità nuove di reinventarsi e ridefinirsi. Ognuno può essere qualsiasi cosa e così sottrarsi alla propria immagine statica, socialmente definita una volta per sempre. Credo però che dentro questa esaltante prospettiva di emancipazione ognuno dovrà anche sforzarsi di ridefinire un limite (benché solo lui possa farlo per sé). Un sessantacinquenne può ritrovare le passioni giovanili e intrecciare relazioni con chiunque ( l’autrice ha inventato una collana di romanzi “rosa grigi”, storie romantiche e verosimili che hanno come protagonisti degli adulti), ma non possono cambiare e manipolare l’anagrafe. Sulla parete del tempio di Delfi era scritto non solo “Conosci te stesso” ma anche “Niente di troppo”! Certo, innamorarsi dopo i sessanta è sempre auspicabile: non è vero che sempre “a nullo amato amar perdona”, però chi ama è più felice di chi è amato: è in uno stato di grazia, comunque vada a finire.

La vecchiaia può anche non essere terribile, se si è risparmiati da troppi acciacchi e se si ha la fortuna di non essere poveri, però è un terreno scosceso, che confina con la morte. Ad essa ci avvicina, a quella che Henry James sul capezzale chiamò sospirando “Ah, ecco la famosa morte”. Ravera ci invita ad assumerla come evento di discontinuità, il secondo dopo la nascita, e dunque a celebrarla perciò con la dovuta “commossa allegria”. Giusto, anche se ahinoi la “allegria” temo che non si possa prescrivere. Bene ha fatto Lidia Ravera a mostrarci in un altro modo il “meriggio della sera” (Jung), a sollecitare uno sguardo diverso su di essa. La questione di fondo è quella di una libertà dello sguardo: certo, tutti recitiamo una parte della vita, un copione nascosto, ma almeno dovremmo essere noi a scriverlo!

E fa benissimo a elogiare la libertà anche spavalda di Brigitte Bardot che ha deciso di ingrassare in bella vista. Allentiamo la pressione su di noi della società, e di ogni narrazione pigra e conformista. Resta, è vero, quell’oscuro male che è la morte: uno scandalo e un oltraggio, qualcosa di innaturale, almeno per Elias Canetti (e per me). Anche se di questo atteggiamento qualsiasi orientale potrebbe saggiamente sorridere, e in fondo ne sorrideva anche il nostro Montaigne. Ma intanto viviamo, “e vivere, quando il tempo davanti a te diventa breve, accende una curiosità incontenibile”.