“L’ottimismo di Draghi sulla crisi è incomprensibile, gli italiani devono essere consapevoli dei problemi”, intervista allo storico Salvadori

Per storia, pubblicazioni e profilo accademico, Massimo L. Salvadori è ritenuto, a ragione, uno dei più autorevoli storici e studiosi italiani della sinistra: professore emerito all’Università di Torino. Tra le sue innumerevoli pubblicazioni e saggi, ricordiamo i più recenti Le ingannevoli sirene. La sinistra tra populismi, sovranismi e partiti liquidi (Donzelli, 2019) e Storia d’Italia. Il cammino tormentato di una nazione. 1861-2016 (Einaudi, 2018).

Titolava questo giornale: “Gridavano tutti: «più mercato, più mercato!» Ma ora invocano lo Stato…” Professor Salvadori, siamo all’ennesimo paradosso della politica italiana? E come se lo spiega?
Vorrei fare in proposito un’analogia. I ragazzini nella loro esuberanza gridano spesso ai loro genitori: «Non stateci sempre addosso, lasciateci liberi, sappiamo cavarcela da soli, siamo abbastanza grandi». Poi, quando di cavarsela da soli non sono capaci, allora invocano mamma e papà. Ebbene, ora che le cose non vanno per il verso giusto nel nostro paese, i partiti – a partire da quelli che, essendo vogliosi di fare da sé, hanno voluto mandare in pensione il governo Draghi – chiamano in soccorso colui che hanno confinato al disbrigo degli affari correnti, chiedendogli di agire con la forza dello Stato per salvare quanto possibile in una situazione di pericolo. E ciascuno propone comunque, come naturale in una rissosa battaglia elettorale, le proprie ricette.

Nella migliore tradizione della sinistra riformista, socialista e socialdemocratica europea, era incardinata l’idea di uno Stato regolatore dell’economia. Una sorta di “keynesismo di sinistra”. Nel centrosinistra italiano sembra non essere rimasta traccia di tutto ciò. È così?
Dopo avere esaltato con toni trionfali le virtù del neoliberismo ovvero di un mercato svincolato dai lacci e lacciuoli dello Stato, i suoi fautori si trovano in bancarotta. A dare il via libera al neoliberismo nei loro paesi furono, come ben noto, Margaret Thatcher in Gran Bretagna e Ronald Reagan negli Stati Uniti, due conservatori; poi a portare avanti l’opera furono il democratico Bill Clinton e il laburista Tony Blair. Così il fronte divenne largo, dilagò nel mondo e lanciò allo Stato ogni genere di contumelie. Il mercato fu proclamato sovrano e la socialdemocrazia, a cui furono dovute le più avanzate conquiste sociali, una signora da ricoverare in un pensionato per anziani. L’operazione ideologica fu enormemente favorita dai disastri provocati dai regimi comunisti, che avevano fatto dello Stato-partito il padrone dispotico della società. In relazione al ruolo del mercato, vengono in mente le parole scritte da Tony Judt, uno dei maggiori storici e filosofi politici contemporanei: «Se il fallimento del mercato può essere catastrofico, il successo del mercato è altrettanto pericoloso, da un punto di vista politico». Occorre quindi che lo Stato regoli il mercato. Ma chiedere in via di principio più Stato può essere di per sé un mero flatus vocis. Lo Stato è l’insieme delle sue istituzioni, delle forze politiche e sociali che lo compongono e del governo che lo guida. Se la loro qualità è scarsa o addirittura cattiva, allora esso è persino dannoso. Guardando alle condizioni del nostro Stato, vediamo che il sistema politico è assai difettoso, che i partiti e gli schieramenti si formano e si disfano in tempi più o meno brevi, che anche al loro interno la conflittualità delle correnti non cessa di essere elevata, che il livello dei parlamentari è largamente mediocre se non peggio, che larghi settori della burocrazia sono macchinosi e non dimostrano la desiderabile efficienza. Con le dovute eccezioni, naturalmente, questo è ciò che prevale. Dunque, giusta la richiesta di più Stato, è necessario che si operi per migliorarlo sostanzialmente, altrimenti si cade nella retorica e nell’inconcludenza. Il centrosinistra italiano nelle sue continue incarnazioni è da tempo un amalgama tra differenti culture e ondeggianti strategie politiche, che lo hanno reso incapace di dare risposte adeguate al ruolo che si intende assegnare in campo economico per un verso allo Stato e per l’altro al mercato.

A proposito di paradossi. Calenda si intesta, elettoralmente, l’ “Agenda Draghi”. Lo stesso fa, anche se con toni meno enfatici, Letta. Ma che senso politico ha un’Agenda Draghi, ammesso che esista, senza Draghi?
Mi pare che la cosa si spieghi col fatto che essi hanno bisogno di garantire, facendo appello all’autorità e al prestigio di Draghi, circa la serietà dei loro programmi. Scrivendo sul proprio scudo “Per Draghi” mirano a fare gli eroi delle Termopili contro gli invasori persiani. Draghi viene così eretto a nume tutelare della buona causa, la quale però senza Draghi e la maggioranza che lo ha sostenuto resta essenzialmente un Leitmotiv ideologico da utilizzare nelle polemiche elettorali. Il richiamo a Draghi potrebbe avere efficacia solo se questi lasciasse intendere di voler scendere personalmente in campo; ma dopo il discorso da lui fatto a Rimini, ispirato ad un ottimismo a me incomprensibile nel quale ha affermato che l’Italia ce la farà superando tutti gli ostacoli e quale che sia l’esecutivo che uscirà dalla urne, ha in questo modo lanciato un messaggio che svalorizza il significato del richiamo all’Agenda del premier detronizzato.

“Il modo in cui si sono formate le liste è un’ulteriore dimostrazione del carattere oligarchico del nostro sistema politico. Scarsa democraticità, debolissimo radicamento sociale, verticalizzazione del potere, concentrato nelle mani dei segretari, imposizione ai votanti non solo di liste nelle quali non si può scegliere, ma anche di candidati con deboli relazioni con i collegi, possibilità di presentare la propria candidatura in più collegi, dando così la possibilità di scelte individuali dei vincitori, perché la sorte dei numeri due dipenderà dalle scelte fatte dai numeri uno”. Così Sabino Cassese in una intervista a questo giornale. Lei come la vede?
Io la vedo esattamente come Cassese, che da par suo sa bene quel che dice e i perché. Il quadro da lui delineato calza perfettamente. Per parte mia ho scritto e riscritto in passato molte pagine sulle carenze organiche dei nostri sistemi politici dopo il crollo del sistema dei grandi partiti organizzati agli inizi degli anni Novanta e dell’incapacità di porvi rimedio e sulle periodiche crisi di sistema che si sono susseguite l’una all’altra. Ora la sorte di Draghi, la penosa legge elettorale, le condizioni dei partiti portano alla conclusione che siamo “sempre alle solite”. Per questo considero l’ottimismo mostrato da Draghi a Rimini un cattivo servizio reso agli italiani, che, anziché essere esortati a prendere atto dello stato reale della situazione, si sono sentiti autorizzati rassicurati di fronte alla gravità dei problemi che dovranno affrontare nel loro futuro.

Cosa teme di più del centrodestra? E basta per contrastarlo riferirsi all’antifascismo e al pericolo di uno stravolgimento della Costituzione?
Ritengo che opporre al centrodestra (chiamiamolo tout court destra) l’antifascismo e la difesa della Costituzione quale è sia un sintomo di debolezza. Il fascismo è ormai chiuso nella sua tomba e pensare che la Costituzione costituisca un tabù intoccabile non ha senso, tanto più alla luce del compito di riforma, considerato necessario e urgente, assegnato alle varie Commissioni parlamentari che stanno alle nostre spalle e sfociato ripetuti fallimenti. La seria minaccia che si presenta è quella congiunta dell’“orbanismo”, di un autoritarismo xenofobo e di un antieuropeismo giustificato dalla necessità di difendere gli interessi nazionali e del populismo. Quanto alla Costituzione, io non auspico ovviamente un suo stravolgimento, ma una riforma ispirata non alla mera conservazione bensì ad una innovazione che coniughi libertà, democrazia e maggiore efficienza delle istituzioni.