Tutta la vita in lotta contro le cosche, da procuratore capo di Reggio Calabria e poi al vertice nazionale dell’Antimafia, Federico Cafiero de Raho, entrato in Parlamento con il Movimento cinque stelle, si rende conto di quanto poco potere gestisca la politica rispetto alle toghe. Tenta la sua zampata negli stessi giorni in cui tra il ministro Nordio e gli organismi dell’avvocatura nonché della magistratura si aprono e chiudono tavoli a velocità vertiginosa sulle riforme.
Vertici da cui l’ex procuratore antimafia è escluso, e gli pare quasi un affronto. Si fa intervistare dal quotidiano di famiglia, lancia una sorta di urlo disperato contro la riforma del codice degli appalti, uno dei provvedimenti più sensati del governo Meloni, che lui, come ampiamente prevedibile, boccia come “aiuto alla mafia”. Senza neppure farsi sfiorare dal dubbio che siano le troppe leggi e le troppe burocrazie a produrre corruzione e camarille. Come dicevano gli antichi? “Corruptissima re pubblica plurimae leges”. Ma non è per questo provvedimento del governo che il deputato Cafiero de Raho si spinge fino a dichiarare che “stiamo scivolando verso una dittatura” e che “vogliono a piccoli passi trasformare ogni illegalità nella regola”.
Quel che indigna l’ex magistrato sono proprio quei “piccoli passi” verso le riforme del diritto e della procedura penale che sono in discussione in questi giorni, dopo la proclamazione da parte dell’Unione delle Camere penali di uno sciopero di tre giorni e di una grande manifestazione nazionale a Roma il 21 aprile. Gli avvocati sono pronti a scendere in piazza contro una sorta di immobilismo sulle riforme da parte di Governo e Parlamento, che si sono già sbilanciati al contrario proprio su “controriforme”, come il decreto sui rave party e sull’ergastolo ostativo. Il deputato Cafiero, pur lamentando la delusione per quel senso di inutilità che spesso si avverte in Parlamento quando non si riesce a fare arrivare in porto una proposta di legge o ad avere ascolto con interpellanze e interrogazioni, il che purtroppo è abbastanza usuale, rappresenta però perfettamente la filosofia delle toghe, che detestano ogni forma di cambiamento riformatore.
Prendiamo per esempio il problema della lunghezza dei processi, che in Italia sono eterni in maniera finora non superabile. Se pare irricevibile alle toghe il criterio dell’improcedibilità della legge Cartabia, non va bene neanche il ritorno alla prescrizione per come era nel processo tradizionale, cioè prima dell’intervento del ministro Bonafede. Il quale, in sintonia con Cafiero, ne aveva disposto l’eternità per legge. Sul punto addirittura viene introdotto un argomento di populismo giudiziario con l’uso di un termine veramente poco elegante sulla bocca di un uomo di legge: il “cavillo”. Cioè, non il ricorso alla legge, ma a un trucco, quello strumento spregevole cui ricorrerebbero gli avvocati, quelli astuti e imbroglioni, sempre al servizio “dell’imputato ricco e potente”, per sfuggire alla giustizia. Ah, che smemorato, l’ex magistrato “antimafia”, che proprio non ricorda come il 75 per cento delle prescrizioni cadano durante la fase delle indagini preliminari, quella in cui il dominus assoluto è il pubblico ministero.
Naturalmente non va bene neppure mettere mano alle fattispecie dell’abuso d’ufficio e del traffico di influenze. Il primo perché nei fatti non esiste già più (e bisognerebbe raccontarlo ai sindaci di tutti i partiti che sono andati in processione dal ministro Nordio supplicandolo di riformare la norma), il secondo perché ce lo chiede l’Europa. Anche in questo caso senza considerare la differenza tra ordinamenti su quei principi fondamentali come la separazione delle carriere o la discrezionalità dell’azione penale, da cui poi discendono le diverse modalità di applicazione di ogni norma del diritto penale o processuale. L’urgenza di queste e altre riforme sul processo penale è evidente a tutti, e del resto lo stesso Carlo Nordio e la maggioranza che lo rappresenta avevano presentato in campagna elettorale un programma di riforme di matrice liberale. A partire dalla separazione delle carriere, unico provvedimento in grado di stabilire l’effettiva parità processuale tra accusa e difesa. Nonostante nei giorni scorsi qualche spiffero di Palazzo, di quelli che in genere qualche fondamento lo hanno, avesse fatto temere un rinvio senza data di quella riforma, nella prima commissione della Camera, quella degli affari costituzionali, tre proposte sono già incardinate e sono iniziate le audizioni.
Sono progetti che ricalcano nei contenuti quella di iniziativa popolare presentata dall’Unione Camere Penali, e sono state presentate da parlamentari di maggioranza come Forza Italia e la Lega e di opposizione come Italia Viva e Azione, ma non di Fratelli d’Italia. Cioè del partito della premier Giorgia Meloni ma anche di Carlo Nordio. Se la separazione delle carriere, insieme a un temperamento dell’obbligatorietà dell’azione penale, siano ancora all’ordine del giorno nel programma di governo, o se invece sia vero che la stessa premier abbia imposto un freno al proprio guardasigilli, lo si vedrà già nella giornata di oggi 4 aprile. Perché al tavolo con i rappresentanti del governo siederanno gli organismi degli avvocati ma anche l’Associazione nazionale magistrati.
E lì si capirà se nel cronoprogramma di riforme che il guardasigilli ha già annunciato per il mese di giugno –abuso d’ufficio e traffico di influenze, prescrizione, misure cautelari, impugnazioni delle assoluzioni, intercettazioni e giustizia minorile– saranno o meno inserite le modifiche costituzionali della separazione carriere e obbligatorietà dell’azione penale. A quel tavolo non siederà in nessuna veste, né di magistrato né di deputato, Federico Cafiero de Raho. Ma saranno agguerriti i rappresentanti delle toghe con la loro ossessione del pm sottoposto all’esecutivo, ipotesi di cui nessuno ha mai parlato. Ma anche gli avvocati, che non hanno ancora disdetto i tre giorni di sciopero né la manifestazione nazionale del 21 aprile. Hic Rodus, hic salta, ministro Nordio.
