Ma l’anima riformista e democratica del Pci è un’illusione postuma

Caro direttore,
Non ho mai chiesto di poter intervenire nel dibattito qui inesausto sulla vicenda della sinistra italiana perché è scritto in una lingua con cui non ho dimestichezza. Naturalmente le ragioni inibitorie risiedevano principalmente altrove, e cioè nel sincero senso di inadeguatezza che provo alla sola idea di maneggiare questioni tanto complicate nel contraddittorio con persone di tanta scienza e così profonda dottrina, le molte che si sono esercitate nella discussione che questo giornale ha offerto all’interesse dei propri lettori. Ma appunto: non era quella timidità a implicarmi nell’inerzia. Era il timore, direi la certezza, di non comprendere e di non essere compreso. Latineggiando: la certezza che nun se capimo.
Ma sforo anche quest’altro filtro, vagheggiando che magari possa interessare quel che si dice il punto di vista diverso, come quello del personaggio venuto da chissà dove e che affetta competenza su come si prepara una faraona ripiena mentre la sua cultura gastronomica è ristretta ai globuli di naftalina.
“E se anticomunista io sono, tale non per ragionamento io sono, ma perché democratico”. Questa contraffazione del famoso apoftegma saviniano (“E se ateo io sono, tale non per ragionamento io sono, ma perché cristiano”), serve a spiegare l’origine di quel diverso punto di vista: l’idea che la sinistra comunista e postcomunista si sia indotta nel percorso democratico compromettendone la dirittura, mentre l’immagine che essa promuove di se stessa è esattamente opposta, quella del partito e della tradizione la cui essenza ha conferito profilo democratico a un percorso altrimenti affidato a un destino esclusivo di malgoverno, di sfrenatezza egoistica contro l’utilità sociale, di cospirazione autoritaria. La famosa doppiezza del comunismo italiano – ora riguardata come contrassegno di contraddittoria irresoluzione, ora celebrata come sapiente veicolo di accreditamento dell’istanza socialista nel milieu capitalistico – dopo cent’anni continua, nella rappresentazione comune, a rinviare al bivio tra rivoluzione e riformismo: ma è, almeno per alcuni, una rappresentazione falsa, posta a dissimulare la realtà diversa di una tradizione che sa di non poter essere compiutamente democratica se non rinunciando completamente a riaffermarsi per quel che è, e ciò mentre fa le viste di dover essere completamente se stessa per essere compiutamente democratica.
Sostenere, come qui ha sostenuto Fausto Bertinotti, che il Pci, nello scenario repubblicano, diventa il partito della Costituzione, significa alludere all’idea – a mio giudizio profondamente sbagliata – che quel partito abbia prescelto la soluzione costituzionale come possibile strumento attuatore delle cosiddette conquiste sociali: in pratica, con la regola costituzionale disposta a essere adoperata per il raggiungimento con criterio democratico della meta socialista. È un’impostazione discutibile non solo perché trascura il ruolo del Pci nella formulazione del fatto costituzionale (che non è una faccenda precostituita cui il comunismo italiano si subordina per pervertirla in una versione cannibalizzata meno sgradevole per le masse popolari): è discutibile perché postula l’idea che l’Italia si sia affaticata sulla via democratica nella misura in cui il Pci faticosamente tentava di praticarla in direzione socialista, mentre è semmai vero il contrario perché – almeno secondo questo punto di vista diverso – l’incompiutezza democratica del Paese trovava nel lavorìo del Pci una causa effettiva piuttosto che un’ipotesi di soluzione.
Non c’era un Paese incertamente democratico perché non abbastanza socialista: c’era un Paese sempre involuto in quell’incertezza perché il partito che contribuiva a determinarla s’era fatto pienamente costituzionale.
La rinnegazione dell’essenza paradisiaca del socialismo sovietico e asiatico ha fatto posto alla storia – intendo dire alla leggenda – di un nobile esperimento vernacolare che magari non avrà ancora raggiunto la meta, ma almeno ha detto democrazia dove c’era pericolo che imperasse il verbo opposto della disuguaglianza, dello sfruttamento, dell’individualismo classista. Questa – purtroppo, mi tocca aggiungere – continua a essere l’imperdonabile descrizione del ruolo comunista nello sviluppo italiano, con lo spaccio dell’assunto secondo cui la non piena affermazione di quella sinistra spiega il nostro difetto democratico: mentre, al contrario, da questo differente angolo di osservazione si ritiene che quella sinistra abbia tratto alimento da quel difetto e l’abbia alimentato. E che (siamo in centenario sciasciano) con meno democrazia quella sinistra sarebbe arrivata ancora più in alto.