Marcel Duchamp e la seduzione della copia

Chi stabilisce il valore di un’opera, cosa definisce la sua copia di minor valore rispetto all’originale? All’inizio del Novecento, quando la tecnica di riproduzione della realtà è ormai un ricordo, resa inutile dalla fotografia ma anche dalla nuova sensibilità diffusa per cui la superficie della realtà non ne esprime più il significato autentico, il ribelle Marcel Duchamp fu il primo a rifiutare la gerarchia imposta dalla tradizione tra opera d’arte e copia, rivoluzionando ufficialmente la prospettiva sul lavoro dell’artista e ponendo al centro il pensiero, l’idea di chi fa arte invece che la sua mano. Duchamp suggellò un processo che avrà poi conseguenze straordinarie su tutta l’arte seguente, sul concetto di replica – addirittura seriale, come nel caso di Warhol – e più in generale sulle modalità di produzione artistica, allargando la visione di ciò che è arte e rendendola allo stesso tempo una questione squisitamente filosofica.

“Distinguere il vero dal falso, così come l’imitazione dalla copia, è una questione tecnica del tutto idiota”, ebbe modo di dichiarare l’artista in un’intervista del 1967. Del resto dal 1918 (quando aveva solo 31 anni) aveva smesso di dipingere, dedicandosi da allora, tra le altre attività, a riprodurre ripetutamente i propri lavori, con cura meticolosa anche se in dimensioni e tecniche differenti. Numerose di queste opere di replica, provenienti da musei nazionali e internazionali, sono oggi esposte alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia fino al 18 marzo 2024, nella mostra “Marcel Duchamp e la seduzione della copia”, prima personale che il museo dedica al grande amico e consigliere della Guggenheim. Esposti una sessantina di pezzi, tra cui alcuni capolavori del maestro come “Nudo (schizzo), Giovane triste in treno e Il re e la regina circondati da nudi veloci”, per la prima volta ammirabile accanto alla sua riproduzione realizzata dall’artista, e numerose repliche di suoi più celebri ready made, fotografie di opere come il “Grande vetro”, la “Sposa” il “Nudo che scende le scale”, stampe, incisioni, numerosi dischi ottici e una delle venti strabilianti “scatole in valigia” (Boîte-en-valise) realizzate dall’artista, in cui aveva riunito una serie di copie in miniatura delle sue opere più celebri, riprodotte a colori e ritoccate ad acquerello o inchiostro, confezionate come fossero un catalogo da poter portare con sé.

In realtà ogni riproduzione diventa non una semplice copia ma un’occasione di applicare la propria creatività variando su tema, realizzando di volta in volta lavori simili ma non pedissequi. Certamente lo scopo di Duchamp di dimostrare che duplicato e originale possa offrire il medesimo piacere estetico viene raggiunto e la sua prospettiva promossa ampiamente, ma è altrettanto vero che le riproduzioni in scala realizzate dall’artista posseggono una personalità e un’espressività ben diverse da quello che potrebbe avere una semplice immagine riprodotta su un libro.

La mostra è comunque l’occasione di approfondire il lavoro sempre originale e difficilmente inquadrabile di questo straordinario creativo del Novecento, irriverente nel trattare la Gioconda di Leonardo così come nel giocare con la propria persona travestendosi da Rrose Selavy, suo personaggio en travesti che utilizzò spesso anche per firmare opere, spiazzando una volta di più intellettuali e pubblico. Il curatore Paul B. Franklin, tra i massimi esperti di Duchamp, ha organizzato il percorso in nove sezioni – introduzione; origini, originali e somiglianze di famiglia; il passato è un prologo; la magia del facsimile; copie autentiche; disciplinare e rendere più audace la mano; clonare il sé, vestire l’altro; ripetizione ipnotica; temi e variazioni – oltre a quella dedicata all’amicizia tra Duchamp e la Guggenheim, con fotografie, documenti e pubblicazioni che raccontano quanto la collezionista si affidò all’artista, conosciuto nel 1923, per comprendere il mondo dell’arte, decidendo grazie al suo aiuto quali artisti promuovere nella sua galleria londinese aperta nel 1938, e imparando da lui, come lei stessa scrisse nella sua autobiografia “la differenza tra l’arte astratta e surrealista”.