Marco Mancini: “I leader politici di Hamas possono firmare un accordo, ma nei tunnel ci sono comandanti che agiscono per conto proprio”

Il colloquio con Marco Mancini, già capo del controspionaggio italiano, offre una prospettiva inedita sulle trattative in corso a Sharm el-Sheikh. Dietro i comunicati ufficiali, il negoziato nasconde un intrico di rivalità interne tra Hamas politico e Hamas militare, tra i veterani sopravvissuti nei tunnel e una nuova generazione di miliziani radicalizzati. Due nomi emergono come decisivi: Ezzedin al-Haddad (Abu Sohaib), oggi comandante delle brigate sotterranee, e Mohamad Rajab, capo della potente brigata di Khan Yunes. Tra questi due si gioca, letteralmente, il destino del negoziato e forse la pace nella regione.

Dottor Mancini, che cosa filtra da Sharm el-Sheikh? A che punto è davvero il negoziato?
«Siamo alla terza giornata di trattative e la questione più delicata resta lo scambio: da un lato il rilascio degli ostaggi israeliani ancora prigionieri di Hamas, dall’altro la liberazione di detenuti palestinesi, alcuni dei quali con un passato pesantissimo. Ma c’è anche un livello meno visibile: mille palestinesi che Hamas definisce “non appartenenti” all’organizzazione, ma che hanno fornito supporto logistico e coperture alle cellule armate. Su di loro si discute molto più di quanto trapeli ufficialmente».

Tra i detenuti richiesti c’è Marwan al-Barghouti. Che peso ha questo nome nel contesto attuale?
«Al-Barghouti è un uomo di Fatah, non di Hamas, ma è il più popolare fra i palestinesi. È visto come il successore naturale di Abu Mazen, ormai fuori gioco. Se fosse liberato, potrebbe diventare il punto di riferimento per un consenso politico nuovo, capace di unire le fazioni. Ma è anche un terrorista condannato: per Israele sarebbe un gesto fortemente politico, non una semplice operazione umanitaria».

Hamas chiede anche la liberazione di sei comandanti storici. Sono loro a bloccare l’accordo?
«Sì. Si tratta di Abdallah al-Barghouti, Ibrahim Hamed, Hassan Salama, Abbas al-Sayed, Hamed Saadat e altri. Tutti responsabili di stragi di civili israeliani. Eppure, molti di loro, se tornassero liberi, sarebbero i primi a rifiutare il piano di pace di Trump. È il grande paradosso di Sharm el-Sheikh».

L’ala politica e quella militare di Hamas appaiono oggi più distanti che mai. Quanto incide questa frattura?
«Incide in modo decisivo. L’ala politica risiede a Salma Ishaq, lavora con il Qatar e tratta con l’Egitto. Ma non controlla gli ostaggi. Questi sono nelle mani delle brigate militari nei tunnel. Due mondi separati, con obiettivi diversi e diffidenza reciproca. Basti ricordare che il 7 ottobre Sinwar non informò la dirigenza politica: la considerava debole e compromessa con la vita da albergo».

Chi guida oggi l’ala militare dopo la morte di Sinwar?
«Il comando è passato a Ezzedin al-Haddad, detto Abu Sohaib. È sopravvissuto ai raid israeliani e controlla le brigate operative nei tunnel. È lui il vero referente della componente armata. Si oppone al piano di Trump, ma se il Qatar e la leadership politica insisteranno, potrebbe accettarlo. È un uomo pragmatico: sa che le risorse sono finite e che senza un accordo Hamas non sopravvive».

Al-Haddad, dunque, è un negoziatore potenziale, non un oltranzista assoluto?
«Esatto. È ostile al piano, ma non cieco. Se Doha e l’Egitto garantiranno appoggi concreti, accetterà. È il tipo che, pur di salvare l’apparato, sa quando piegarsi».

E chi è Mohamad Rajab, il nuovo nome che circola nelle ultime ore?
«È il capo della Brigata di Khan Yunis, la più importante di tutte, perché sotto quella zona si trovano i principali tunnel e la maggior parte degli ostaggi. Rajab è giovane, intelligente, ha creato un modello ibrido di guerra: militare e cognitiva. Utilizza i social network, i media e perfino le università per condizionare l’opinione pubblica e sostenere la narrativa di Hamas».

È lui il capo dell’ala più intransigente?
«Sì. Rajab guida la nuova generazione: circa 15 mila miliziani reclutati nell’ultimo anno, tra i 16 e i 30 anni. Sono fanatici, più radicalizzati e meno addestrati. Per loro, la guerra è una missione religiosa, non una strategia. È la corrente più pericolosa, quella che rifiuta qualunque negoziato e qualsiasi piano di pace».

Questa frammentazione quanto complica il lavoro dei mediatori?
«Rende tutto incerto. I leader politici di Hamas possono firmare un accordo, ma nei tunnel ci sono comandanti che agiscono per conto proprio. Al-Haddad e Rajab non si parlano. Non hanno una catena di comando unificata. E spesso non sanno nemmeno quanti ostaggi detenga ciascuna brigata. È un caos organizzato, un mosaico di autonomie armate».

Dottor Mancini, vede uno spiraglio concreto per un accordo a breve?
«Solo se il Qatar e l’Egitto agiranno insieme e offriranno garanzie tangibili. Se Al-Haddad sarà convinto che la sopravvivenza di Hamas passa per un compromesso, allora il negoziato potrà avanzare. Ma se prevarrà la linea Rajab, quella dei giovani fanatici di Khan Yunes, Sharm el-Sheikh resterà l’ennesima vetrina di diplomazia senza risultati».