Il lettore del Riformista sa quanta distanza ci sia tra noi e Il Fatto Quotidiano. Per molti aspetti siamo agli antipodi: basti citare, su tutti, la giustizia e il giustizialismo. C’è però un momento, nella storia, in cui chi sente minacciata pericolosamente l’esistenza dello Stato di Israele deve chiamare a raccolta tutte le forze e le intelligenze. Quel momento è arrivato. E se consideriamo a quale livello e con quale violenza sia ormai compromessa l’incolumità per le comunità ebraiche della diaspora, l’urgenza che sentiamo nell’unire le voci che denunciano, è massima. Su questi temi il dialogo si può e si deve intrecciare. Ed è particolarmente interessante quello con Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano e autore di Israele e i Palestinesi in poche parole (PaperFIRST, 2024), un libro scritto per provare a far capire qualcosa di più sullo Stato ebraico.
Il tuo libro aiuta a capire il Medio Oriente. L’odio verso Israele nasce dall’ignoranza storica o da un pregiudizio ideologico, anche tra chi conosce i fatti?
«Tra gli odiatori di Israele ci sono gli “storici”, che l’hanno sempre odiato, e i “nuovi”, che non si erano mai posti il problema e hanno cominciato a odiarlo per ciò che fa Netanyahu. Oggi mi paiono maggioritari. Fino a due anni fa non sentivo la pressione che c’era negli anni ’70-’80: il diritto di Israele a esistere non era più in discussione. Dopo il 7 ottobre, invece, lo è di nuovo».
Sta davvero tornando questa rimessa in discussione dell’esistenza di Israele?
«Sì, prepotentemente. Lo attribuisco soprattutto a ciò che sta facendo Netanyahu: è la principale preoccupazione di molti intellettuali e politici israeliani. Io sono nostalgico di Ehud Olmert: non era una mammoletta (ha fatto “Piombo Fuso”), era più nemico di Hamas di Netanyahu, che con Hamas ha colluso e lo ha persino rivendicato in un interrogatorio alla polizia. Olmert fece ai palestinesi l’offerta più vantaggiosa, addirittura oltre il 100% con compensazioni. Conosco bene le occasioni perdute dalle leadership palestinesi. Oggi però vedo solo tattica, nessuna strategia, un numero spaventoso di morti e un isolamento di Israele che non avevo mai visto nelle opinioni pubbliche occidentali. Non può dipendere solo dalla propaganda di Hamas».
Il Qatar: finanziatore di Hamas e oggi mediatore. Un paradosso?
«È una delle tante contraddizioni. Come Hamas stessa: partito, organizzazione guerrigliera e terroristica insieme; ha governato, ha vinto elezioni e persino, verbalmente, sembrò accettare l’esistenza di Israele. Come ricorda Lucio Caracciolo, la definizione di “terrorista” cambia a seconda dei momenti: Arafat, Begin, altri… la storia la scrivono i vincitori».
Se fossi stato consigliere di Netanyahu, cosa avresti suggerito l’8 ottobre?
«Non lo sarei stato, dopo il 7 ottobre, perché avrei cercato di evitarlo prima. Israele non si era mai fatto trovare così impreparato di fronte a una minaccia annunciata da americani, egiziani e propri servizi. Lasciare sguarnito il fronte di Gaza è una colpa politica. Dopo, con i migliori servizi del mondo, non reagisci impulsivamente “maciullando” indiscriminatamente. Sarebbe come radere al suolo la Sicilia per prendere Riina e Provenzano. Se dopo due anni dici che devi “reinvadere per eliminare Hamas”, significa che avevano ragione quelli che sostenevano che non era quella la via».
È davvero «fondamentale» sradicare Hamas? E che ne è degli aiuti e del futuro di Gaza?
«Se vuoi annettere Gaza, prima la ripulisci dai terroristi. Ma se dici che non la vuoi annettere e la passerai agli arabi del Golfo, perché far morire altri soldati stremati e altri civili palestinesi quando i tuoi comandanti stessi dicono che non funzionerà? Passala di mano e lascia che il problema Hamas lo affrontino i Paesi arabi, anche quelli che lo finanziano. Negozia per riportare a casa vivi gli ostaggi: ho seri dubbi che un’operazione militare su larga scala li salverebbe; temo l’opposto».
I numeri delle vittime sono tutti forniti da Hamas: difficile credere che siano attendibili…
«Che siano 100 mila, 50 mila o 30 mila, per me non cambia la sostanza: se occupi un territorio e sei una democrazia, non puoi dire “non è colpa mia”. Devi impedire che qualcuno rischi la fame. Una democrazia ha doveri in più rispetto a un’organizzazione terroristica».
Hamas è un’organizzazione terroristica. Punto?
«Quando colpisci civili sei un terrorista; quando colpisci soldati occupanti sei un guerrigliero, un partigiano—come i nostri contro i nazisti. Quando partecipi alle elezioni e amministri, sei un partito di governo. Questa è la distinzione classica e universalmente riconosciuta».
Francesca Albanese fatica a dirlo con limpidezza. Che ne pensi?
«Dovrei risentirmi e rileggermi tutte le interviste e le dichiarazioni. Non vivo delle parole altrui: per me terroristi sono quelli che colpiscono deliberatamente i civili, punto. Se altri non fanno questa distinzione, mi dispiace per loro».
Albanese andrebbe rimossa dal suo incarico ONU?
«No. Ha preso posizioni e usato termini che io non userei, ma ha raccolto dati e denunce: era il suo compito. Chi vive quelle emergenze fatica a restare “asettico”. Quando è andata a Gaza ha visto cose che non piacevano a nessuno neppure prima del 7 ottobre. Ricordiamo che con Sharon Israele si ritirò da Gaza: scelta dura ma pragmatica, perché annettere i territori ucciderebbe la democrazia israeliana».
Riconoscere domani, con urgenza, lo Stato di Palestina: che valore avrebbe in diritto internazionale?
«È un atto simbolico che non cambia nulla. Se vuoi fare pressione su Netanyahu devi toccarlo sulle armi o con sanzioni. Dire “riconosceremo” serve spesso a lavarsi la coscienza senza fare altro. E vedere chi prima dice che Netanyahu “fa il lavoro sporco per noi” e poi annuncia sanzioni è schizofrenico».
Che cosa intende Conte quando parla di «retorica del 7 ottobre»?
«Questo andrebbe chiesto a lui. Detto questo, va fatto un ragionamento sull’uso sproporzionato della forza. Non mi sono dimenticato il 7 ottobre, ma non puoi radere al suolo la provincia di Palermo perché lì si nascondono i mafiosi. Condannare i morti di Gaza non significa giustificare i morti del 7 ottobre, e viceversa. Israele è una democrazia: mi dispiace che sia caduta in mano a un governo che fa male prima anche al proprio popolo, oltre che ai palestinesi».
Set fotografici allestiti, lo stesso attore che compare venti volte come padre di un bambino ucciso: non c’è un po’ troppo cinema, a Gaza?
«C’è propaganda dappertutto, è la guerra. Ma se vedi bambini scheletriti non è per la foto: è perché non arrivano gli aiuti».
L’operazione di fake news mondiale, con il bambino che in realtà era stato curato in Italia un anno fa, segnalano un tema di disinformazione serio…
«La polemica su quel bambino curato in Italia non regge: è malato, ma se lo nutri sta meglio. Israele dovrebbe fare di tutto perché nessuno resti mai senza cibo».
Sionismo e antisionismo: il primo incarna i valori comunitaristi e democratici. Chi si proclama antisionista oggi è contro quei valori, come fosse contro il nostro Risorgimento?
«Sì ma uno può anche dirsi antisionista come ci può essere chi è contro il Risorgimento e rimpiange i Borbone o la Serenissima. L’insopportabile è schiacciare il sionismo sulla politica attuale di Netanyahu: basta leggere Herzl per capire che è tutt’altra cosa. Oggi l’ultimo fotogramma cancella il film: si dimenticano Ben Gurion, Golda Meir, Begin, Rabin, Sharon, Olmert… Ho scritto quel libretto proprio perché intuivo che tutta la storia di Israele sarebbe stata ridotta all’oggi».
«Due popoli, due Stati» oggi sembra irrealistico e persino propagandistico. Resta comunque l’unica via?
«Per quanto oggi appaia irrealistica e anche propagandistica, la prospettiva dei due Stati—quella della Risoluzione 181 dell’ONU del 1947, che rimpiango perché se fosse stata accettata anche dagli arabi non saremmo qui—resta meno insicura dell’ipotesi di uno Stato unico. Il paragone con il Sudafrica non regge: lì si verificò una congiunzione astrale—De Klerk indisse libere elezioni, accettò di fare il vice di Mandela uscito dal carcere, e Tutu lavorò alla riconciliazione. Oggi non vedo nulla di simile da nessuna parte. Non so quando, ma la soluzione più realistica resta quella dei due Stati, con grandi sacrifici per tutti».
«Gaza, Gaza»: può diventare il collante del cosiddetto “campo largo” e tenerlo insieme con uno slogan?
«Non credo. E la parola “campo largo” mi fa venire l’orticaria. L’Italia conta poco sul piano internazionale come governo, figuriamoci l’opposizione: gli elettori non giudicheranno il centrosinistra per la linea—peraltro corretta—tenuta su Gaza. Non si sono schierati “con Hamas”: hanno espresso posizioni simboliche e detto dei no a Netanyahu, non meno netti di quelli dei suoi oppositori interni. Vedo che anche il governo Meloni sta arrivando a qualche no, sempre a rimorchio di Trump e facendo attenzione a non contrariarlo. Ma, ripeto, alle urne il centrosinistra non verrà certo valutato su Gaza».
La tensione mediatica su Gaza è eccessiva? In Parlamento i 5 Stelle hanno formato con i propri corpi la bandiera palestinese. Non si sta esagerando?
«Non direi. Parlano anche di salari, povertà, caro-vita, vacanze negate. È chiaro però che Gaza domina: da due anni va avanti una guerra di cui nessuno capisce il senso, se non la sopravvivenza politica di Netanyahu—perché se finisce la guerra finisce anche lui. La gente è indignata e fa bene l’opposizione a chiamare il governo a prendere posizione. Ma le elezioni non si vinceranno né si perderanno su questo: alla fine peseranno economia e questioni interne».
