Mario Draghi non molla, il suo federalismo pragmatico è un atto d’accusa

Former Central Bank President Mario Draghi waves after receiving the Princess of Asturias Awards during a ceremony in Oviedo, northern Spain, Friday, Oct. 24, 2025. (AP Photo/Miguel Osés)

Mario Draghi è davvero il primo dei volenterosi. Non molla. Ha di nuovo raccontato l’auto-paralisi dell’Europa e la via per aprire un nuovo ciclo. Lo ha fatto con una parsimonia delle parole che ha colpito persino “Le Monde”, abituato evidentemente ad un paese dove la politica meno conclude più alza la voce. Ma questa volta lo ha fatto anche con il peso dei troppi appelli a vuoto, e con il piglio di chi pone un ultimatum: rinnovarsi o perire, per dirla con Pietro Nenni. Nel suo “federalismo pragmatico” conta molto più l’aggettivo del sostantivo.

Serve realismo. Al posto di un’Europa vista come ideologia o come abitudine, bisogna costruire subito un soggetto politico che agisca e decida in tempi rapidi. Con la tecnica, appunto, dei volenterosi che diventa regola e non più eccezione. L’Unione come eterna assemblea di condominio, che si accanisce su regolamenti e quote latte, gender fluid e tappi di plastica, è peggio che sbagliata: appartiene ad un’altra epoca. Un sistema così ingessato poteva sopravvivere nel tempo del primato democratico e occidentale, dove l’ombrello euro-atlantico arrivava a proteggere sempre più capitali europee. Erano i tempi di includere e condividere, per allargare più che un’unione politica un mercato di beni e servizi. Erano anche tempi di tanti piccoli lussi: fra questi, crogiolarsi nei piani di coesione e nei vari brand politici tipo frenare la spesa “perché ce lo chiede l’Europa”, oppure usare Bruxelles come parafulmine per ogni disordine sociale. Un’epoca durata mezzo secolo – le prime elezioni europee risalgono al 1979 -, che ha attraversato la strettoia di Maastricht e l’euforia di Schengen e poi dell’euro, i fasti dell’estensione a 27 e il bivio fra la nuova Ventotene e un ritorno ai recinti nazionali ribattezzato “sovranismo”.

Tutto questo affascinante edificio, dice Draghi, è crollato. Né gli Stati Uniti d’Europa né le piccole patrie sono la soluzione ai nuovi dilemmi: i primi non sono possibili, le seconde sono sbagliate. Occorre unirsi sulle idee concrete e finirla una volta per tutte di usare il feticcio dell’unanimità come alibi per l’inerzia, e come giustificativo di una comunità politicamente ed economicamente irresponsabile. Perché ieri si poteva contare su un asse con Washington che pareva indistruttibile, e su un rapporto con Russia e Cina segnato da un sostanziale appeasement. Oggi, dice l’ex governatore e premier, “ogni principio su cui si fonda l’Unione è sotto attacco”. Quindi, la prospettiva di decidere sempre tutti insieme è la via più sicura per farsi paralizzare dall’Ungheria o dalla Slovacchia persino sull’adesione di Kiev all’Unione. All’opposto, il calcolo politico del piccolo guadagno nazionale si traduce in una perdita strategica europea che pesa su tutti.

Lo Stato di diritto non può farsi paralizzare dal diritto. La libertà non può essere impigliata nella sua parodia. O l’Europa si svincola dalla sua presunzione-alibi di essere il tempio della procedura, della formalità, della norma indifferente all’orologio, o finirà per essere un terreno di conquista. Un nuovo Impero Romano che si gingilla sulla caricatura di quella che fu la sua democrazia e viene perforato e poi annullato dai barbari di oggi, che sono le autocrazie. Draghi è pacato e non alza i decibel, ma a tutti appare chiaro che il suo federalismo pragmatico non è un’offerta gentile, ma un atto d’accusa e una sfida: “Cos’altro deve aspettare un leader per agire”, cos’altro deve accadere, cos’altro deve crollarci addosso? Vogliamo continuare a balbettare o sapremo dimostrarci una civiltà che decide, difende, si rinnova? La democrazia liberale non è un club di conversatori, ma un sistema che deve saper risvegliare le sue antenne e passare all’azione.

L’obiettivo è “un’Europa in cui i giovani vedono il loro futuro. un’Europa che rifiuta di essere calpestata. un’Europa che agisce non per paura del declino, ma per orgoglio di ciò che può ancora realizzare”. Dietro questo vessillo, Draghi rilancia i suoi items: difesa comune, energia condivisa, ricerca e industria in rete, tecnologie di frontiera, azioni diplomatiche decise e comuni. L’appello draghiano è secco, mirato. Ma sembra cadere nel silenzio anche questa volta. A parlare è solo Viktor Orban, ma per denigrare l’Europa che c’è. Si alzerà qualcuno, prima o poi, per aprire la nuova stagione? Non si sa. Al momento pare che il nuovo prototipo di leader continentale veda la politica solo come voto dei suoi tifosi e abile governo di Instagram.