Non esiste, nel panorama letterario italiano, un romanzo come Libro del sangue. E quando dico che non esiste, intendo che l’unica creatura letteraria cui è possibile associarlo è, per certi versi, il Moby Dick di Herman Melville: stessa visionarietà, stessa attitudine a creare una cosmogonia personale, stessa dolente e lucida determinazione a indagare le linee d’ombra dell’essere umano che costituiscono le storie familiari e, di conseguenza, quella umana. Terzo libro di una trilogia iniziata con Libro dei fulmini e Libro del sole (tutti e tre pubblicati da Atlantide Edizioni), questo romanzo non è il completamento dei precedenti, ne è, semmai, l’arricchimento.
La genealogia e il destino, il ruolo dei nomi – lo stesso che Melville aveva attribuito al nero e al bianco, ribaltandone l’uso e la percezione -, la figura dell’alter ego: non stupisce che il protagonista del Libro del sangue sia una dramatis persona che si chiama Matteo Trevisani. «Mio padre, che con quel nome si era sobbarcato inutilmente un fato non suo, fu l’unico a non andare per mare, e io mi sono rifiutato di continuare la storia dei nomi. Ma volevo vederci più chiaro, andare più a fondo. È stato questo, il seme dell’albero: sapere dove si origina la maledizione, quanti ne sono morti, a chi questa famiglia ha fatto così male. Chi si sta vendicando. Se ce lo meritiamo, oppure no». Il male, il destino, andare a fondo. Tra male e mare c’è solo una consonante di differenza. «Considerate l’astuzia del mare: come le sue creature più temute scivolano sott’acqua, senza quasi affatto mostrarsi, perfidamente nascoste sotto le più incantevoli tinte dell’azzurro», scrive Melville.
È precisamente questa l’impresa letteraria di Trevisani: nuotare, carpire nel mare magnum del passato l’intreccio delle radici familiari per comprendere il presente. Inabissarsi, è la parola chiave. Splende la capacità di Matteo Trevisani di costruire una coerenza lessicale, di scegliere termini che, già in sé, costituiscano un mondo, una visione narrativa, una cifra stilistica personalissima. Se pure è importante la trama di questo libro, quel che più avvince, che suscita genuino entusiasmo – da scrittrice a scrittore – è proprio lo stile: Trevisani ci guida nella sua ricerca, e noi lo accompagniamo, senza renderci conto che ciascuno di noi sta scoprendo qualcosa di se stesso, della sua vita, della sua famiglia. E forse anche del mondo: nel mare della storia siamo tutti parte del Tutto, sta a noi trovare la strada, quella percorsa e quella da percorrere.
L’autore, che nei libri precedenti affronta l’esoterismo, la storia romana, l’astronomia, qui si concentra sul destino e sul male per approdare a una visione della vita e dell’universo che fa di lui uno scrittore di alta caratura: dopo le ricerche sulla sua famiglia, il testimone passa simbolicamente al figlio. Ma Trevisani sa benissimo che la vita non è fatta di cerchi che si chiudono, bensì di una spirale continua: e lui la attraversa scrivendo, affondando, riemergendo, traendoci in salvo per poi lasciarci andare. Questo romanzo è Ismaele, il bianco è diventato rosso, l’acqua è vita e morte: «La nostra stirpe era condannata all’oblio, ed era di questo che avevo paura da sempre. Dimenticare, essere dimenticato. Tutti quei miei padri naufraghi e quelle madri abbandonate cercavano il modo di salvare i figli, perché non c’è altro compito per un genitore sulla terra. È qualcosa che sta nel sangue». È materia monumentale, quella di cui scrive Trevisani, che ci fa tremare, e ci confonde e, proprio per questo, ci nutre.
