Mediobanca non è più Mediobanca. O almeno non lo sarà più come l’abbiamo conosciuta. Con le dimissioni di Alberto Nagel e dell’intero consiglio (fatta eccezione per il fedelissimo Panizza, baluardo della lista Delfin), cala il sipario su un’era trentennale che ha visto Piazzetta Cuccia passare da regista occulto del capitalismo italiano a pedina scalata da una banca commerciale. E non una qualsiasi, ma Mps: l’istituto toscano salvato a più riprese con capitali pubblici, oggi trionfante predatore di una preda storicamente considerata inespugnabile.
Nagel, in una lettera intrisa di classicismo, si aggrappa a Orazio: Graecia capta ferum victorem cepit. Una citazione che suona più come autodifesa intellettuale che come strategia bancaria. L’ex AD insinua che Mediobanca, pur conquistata, continuerà a condizionare culturalmente l’acquirente. Un modo elegante per non ammettere che il “forte vincitore” questa volta non è Roma, ma Siena. Sul piano industriale, la partita è chiara: l’Opas di Mps ha già raccolto oltre il 64,6% delle adesioni, con prospettive di sfondare l’80% e, se supererà il 90%, arrivare al delisting del titolo in Borsa. Non è solo una questione di controllo azionario, ma di modello di business. L’integrazione tra la banca commerciale toscana e la raffinatezza di corporate e investment banking di Mediobanca potrebbe sembrare sulla carta una sinergia, ma i mercati hanno imparato a diffidare delle nozze forzate. Nagel, con un utile di 1,33 miliardi e un dividendo di 1,15 euro per azione a bilancio, archivia la sua gestione ribadendo che il “matrimonio ideale” sarebbe stato nel risparmio gestito. Tradotto: un deal con partner specializzati e non una fusione con chi misura i propri risultati sul margine d’interesse. Una stoccata elegante, ma inequivocabile.
Intanto, Delfin (21%) e Caltagirone (13%) entrano nel capitale del nuovo soggetto con il piglio di chi più che sostenere, vigilerà. Korn Ferry è già stata incaricata di setacciare i profili del nuovo vertice: un passaggio formale che nasconde il rischio di un management piegato alle logiche di Palazzo Sansedoni più che a quelle del mercato. E allora la provocazione è inevitabile: siamo di fronte alla nascita di un campione nazionale o all’ennesimo compromesso “all’italiana”, dove il pubblico sostiene, i privati vigilano e la cultura aziendale viene sacrificata sull’altare della dimensione? Mediobanca, la creatura di Cuccia e Maranghi, nata per orchestrare il capitalismo italiano con understatement e disciplina, rischia di diventare una divisione di lusso in una banca commerciale che ha sempre rincorso sopravvivenza e dimensione. Se la Grecia conquistata rese Roma più civile, come scrive Nagel, resta da chiedersi se Siena renderà Mediobanca più provinciale.
