Il Meeting di Rimini, da 45 anni appuntamento di fine estate, rimane l’unico vero luogo capace di parlare all’Italia intera. Non un rito stanco, non una passerella politica: un crocevia dove cultura, economia, società e fede si incontrano per misurarsi con le urgenze e le speranze del Paese. È un evento che rifugge dall’approssimazione, dalla polemica urlata, dalla demagogia a buon mercato. E in un tempo in cui ministri screditano le istituzioni offendendo alleati storici, e coalizioni elettorali si improvvisano attorno alla promessa di elargire denaro non guadagnato a costo di gonfiare un debito già enorme, il contrasto con il palcoscenico riminese è abbagliante.
Mario Draghi, presenza attesa e ascoltata, ha ribadito con la consueta chiarezza i termini della sfida che ci attende. La sua comunicazione non è mai compiaciuta: elenca debolezze strutturali, indica con precisione le vie d’uscita, richiama il contesto mondiale radicalmente mutato. Ha parlato a un Paese distratto e a una politica che lo ha estromesso per meschini calcoli di bottega, salvo poi utilizzarlo come bersaglio o pretesto. Eppure, nel suo dire, c’è la differenza tra serietà e mediocrità. Draghi ha ricordato la distinzione decisiva tra debito buono e debito cattivo. Il primo investe su ricerca, infrastrutture, innovazione, istruzione: rende più competitivi, più liberi, più forti. Il secondo alimenta bonus a pioggia e redditi assistiti, e produce un doppio danno: accresce il fardello dei conti pubblici e allarga la distanza con chi, nel mondo, corre con strumenti dello sviluppo ordinati ed efficienti. È questa la frattura che rischia di condannarci a un futuro da comprimari.
Non si è fermato qui. Ha ammonito che l’Italia e l’Europa non possono più illudersi di vivere di solo commercio, protetti da regole internazionali e alleanze date per scontate. L’anno trascorso lo dimostra: la competizione globale non è più solo economica ma anche militare, senza esclusione di colpi. Energia, terre rare, semiconduttori, innovazione: su ciascuno di questi fronti siamo fragili, spesso nudi, come mai era accaduto per gli europei. La risposta non può essere un rifugio nel piccolo cabotaggio nazionale, ma un salto verso la sovranità europea. Solo così le nostre risorse umane, finanziarie e scientifiche potranno diventare forza reale, perché valorizzate su scala continentale.
Draghi ha insistito anche su un patrimonio spesso sottovalutato: l’Europa resta la riserva mondiale di libertà individuali e collettive, di tolleranza, di dialogo. Questa ricchezza, più che economica o militare, è ciò che attira i popoli oppressi, è la vera alternativa ai nazionalismi e agli autoritarismi. Ma perché diventi feconda occorre una politica che la traduca in responsabilità e visione, non in sterile retorica.
È il momento di scegliere: restare prigionieri della mediocrità sovranista e di surrogati ideologici o raccogliere la lezione. La storia insegna che la nostra sorte dipenderà soltanto da noi: chi non vuole essere complice della disgregazione deve cambiare passo, ora.
