Milano esce da 10 anni di profonde e veloci trasformazioni. Un continuo cambiar pelle, con tutti gli scatti in avanti e le crisi di identità del caso. Ne parliamo con Luca Stanzione, segretario generale della Cgil di Milano.
Milano resta la città della produttività e del lavoro, ma come può immaginare il suo futuro?
«Milano è la città che produce da sola il 25% del Prodotto interno lordo derivante dall’economia della conoscenza, 9 poli universitari, più di 200mila studenti che transitano, arrivano e si fermano a Milano, 3 centri di produzione televisiva, numerose case editrici, fondazioni. Eppure Milano non viene conosciuta al mondo come la Milano città della conoscenza. Questo significa mettere la testa, lo sguardo, la visione su grandi problemi come quello della casa, ma anche come quello dell’accoglienza degli studenti che arrivano a Milano; questo significa chiedersi come potenziare un sistema che possa diventare attrattivo per gli investitori che guardano alla produzione di contenuti, alla produzione di intelligenza, alla ricerca».
Ma l’approccio sindacale nei confronti di questa visione di città, così lontana dal modello produttivo classico, quale riesce ad essere? Si impone un ripensamento profondo anche per voi?
«Noi mettiamo in campo un sindacato confederale che parte da queste grandi sfide. Significa per esempio far fronte ai cambi importanti che ci sono all’orizzonte, come quello dell’Intelligenza Artificiale che ha molto a che fare con il rapporto con la conoscenza delle persone e con la trasformazione delle figure professionali. Noi abbiamo una risorsa importante storicamente: a Milano le transizioni sono state gestite con un alto tasso di contrattazione, di contrattazione nelle aziende e di contrattazione territoriale. Se si guarda all’obiettivo, queste risorse possono essere messe in campo dalle parti sociali se c’è da parte di tutto il sistema la stessa consapevolezza».
In che modo dovrebbe esprimersi concretamente questa consapevolezza nel tessuto produttivo milanese?
«A volte mi sembra che si affrontino per esempio le crisi, crisi per crisi, senza guardare alla crisi complessiva che invece abbiamo. Altre volte raccontiamo Milano come una Milano solamente che cresce, cosa vera se guardo in maniera asettica i numeri, ma cresce in una direzione precisa e bisogna chiederci se la qualità di questa crescita è una qualità che intanto mette al sicuro, protegge il sistema milanese che è un sistema fatto di lavoratrici e lavoratori, ma un sistema fatto di impresa, di saper fare e anche di istituzioni e di Enti locali. Mettere in protezione oggi significa guardare allo scenario internazionale, sapendo che i grandi cambiamenti che stanno passando sotto le nostre teste sono repentini e bisogna andare in una direzione precisa».
Mi sta definendo un sindacato moderno, dialogante, molto riformista, molto proiettato nel conoscere e gestire l’innovazione. Me lo conceda: molto diverso dalla percezione del sindacato nazionale…
«Io credo che ci sia una tradizione sindacale milanese che nelle fasi più difficoltose della storia ha trovato le migliori soluzioni possibili. Penso altrettanto però che, dopo la vicenda del referendum, noi dobbiamo far tesoro di quell’esperienza aumentando la nostra dimensionalità territoriale, la nostra capacità di aprirci, di fare rete con soggetti politici e sociali per guardare la trasformazione dei territori. Se c’è una risorsa che ereditiamo da questa campagna referendaria, è l’attenzione che va ben oltre la Cgil».
Nel decennio dopo Expo, Milano ha vissuto uno sviluppo importante. Secondo lei questo slancio si è esaurito e c’è bisogno di una nuova grande spinta oppure Milano ha delle forze endogene che la possono far crescere nella giusta direzione?
«Io penso che Milano abbia delle risorse. Queste risorse che stavo dicendo prima sono legate a un settore molto importante che sta dietro, se ci pensiamo, a molti altri settori: la stessa industria ha bisogno di ricerca, la stessa produzione ha bisogno di ricerca. La ricerca è alla base di un sistema produttivo. Se oggi il nostro Paese è conosciuto come il Paese a bassa produttività – ci viene ricordato sempre, e spesso erroneamente si accusa il fattore lavoro di essere poco produttivo – è proprio perché sono mancati nel corso dei decenni gli investimenti nella ricerca. Queste risorse Milano ce le ha, può e deve metterle in campo in una visione di città».
Torno al ruolo sindacale: a questo punto il lavoro bisogna pensare prima a inventarlo che a tutelarlo…
«Guardi, le due cose io penso che nella storia della contrattazione siano sempre andate insieme. Il lavoro si trasforma in continuazione, lo sanno benissimo le nostre delegate e i nostri delegati che contrattano tutti i giorni nei posti di lavoro i cambiamenti che il lavoro ti mette davanti. Certo, l’innovazione tecnologica, l’innovazione dell’Intelligenza Artificiale, la transizione ecologica, questi cambiamenti che ci vengono incontro impongono alle forze produttive, non solo al sindacato, di trasformarsi. E questa trasformazione va accompagnata con la contrattazione».
Come affrontare concretamente queste transizioni?
«Perdente sarebbe un sistema delle imprese che nega ci siano questi cambiamenti in campo (guardi tutta la discussione aperta in queste ore in Europa sul rallentamento rispetto alla transizione ecologica) oppure un sistema delle imprese che pensa di gestire queste transizioni da solo nel rapporto individuale con lavoratrici e lavoratori. Ci vuole una risposta complessiva che può essere messa in campo da una parte con l’intervento pubblico: io penso alla riforma degli ammortizzatori sociali per accompagnare queste transizioni, ammortizzatori sociali che vanno bene per le crisi aziendali ma non per le fasi di cambiamento e di transizione».
C’è il tema della contrattazione locale di cui si parla molto per uscire da una fase di ingessatura dei salari, del rapporto con i costi. Anche qui il sindacato deve indicare una via chiara…
«Ci sono alcuni contratti nazionali che consentono una contrattazione del salario a livello locale, ma ad oggi la titolarità della definizione del salario è il contratto nazionale, per cui sarebbe inefficace, a prescindere da come la pensi io, una contrattazione territoriale sul salario. C’è bisogno di intervenire sul salario, lo si può fare con il cosiddetto salario indiretto: le famiglie milanesi spendono il 40% dei loro stipendi per la casa, spendono un altro 20% per il welfare sanitario, che si sta in continuazione privatizzando e continua ad aumentare di costo. Si potrebbe ragionare nella direzione del rafforzamento di un welfare territoriale che guardi questi temi e provi a dare una risposta consistente, perché ad oggi il gap tra salario e costo della vita che c’è a Milano non lo recuperi con una contrattazione diretta sul salario».
La politica locale milanese, metropolitana, come e quanto è chiamata a coordinare tutto questo?
«Diciamo che noi spesso abbiamo assistito alla politica locale, che è fatta di diversi Enti locali, alla gestione del quotidiano, alla gestione dell’emergenza. C’è bisogno che la politica torni a guardare all’orizzonte dei prossimi decenni, una politica che si pensa trasformativa e non soltanto amministratrice. Una politica che indirizza e non gestisce solamente dove le forze vanno. Se la politica torna a fare la politica e non l’amministrazione pura del contingente, allora la politica può essere una grande risorsa che ha il potere di convocazione delle forze sociali in campo e di richiesta di presa di responsabilità».
C’è il tema della rigenerazione urbana e delle periferie, che diventano sempre più periferiche anche socialmente. Quale può essere il ruolo delle politiche del lavoro?
«Assomiglia molto di più a un trend internazionale che riguarda molte città europee. Con delle funzioni molto precise che guardano a quelle fasce di popolazione, che possono essere i lavoratori più poveri, che possono essere i giovani, che sono un grande tema che deve affrontare questa città. Per esempio c’è un grande tema di presidio sanitario a cui si costringe un arretramento del sistema regionale, penso a tutta la mancanza di sostegno psicologico e psichiatrico non soltanto per i giovani di cui c’è bisogno a Milano».
Milano è sempre più internazionale, sempre più europea oppure deve in qualche modo ricompattarsi e pensare a una sua identità più locale?
«No, io credo che la vocazione di Milano sia proprio europea e che da Milano e dalle grandi città europee si possa riscoprire una nuova identità europea nel mondo, che è la vera grande assente di questi anni. Se l’Europa tornerà – e Milano con l’Europa – ad essere una terra a cui si guarda con speranza, si potrà pensare a una Milano, a un’Europa che non declina ma che possa essere guardata dalle generazioni del mondo come la strada imboccata per salvare il pianeta, e contemporaneamente rendere compatibile la produzione di ricchezza con un rispetto delle persone».
Un’ultima cosa: la scommessa, la sfida che una volta centrata le farà dire «Milano ce l’ha fatta»?
«Uno studente del Politecnico di Milano se va a lavorare all’estero guadagna 1.000 euro in più rispetto a chi rimane in Italia. Se fra qualche decennio la metà degli studenti stranieri che transitano da Milano per acquisire conoscenza, per poi fare un giro per il mondo, ritornerà a Milano a ricercare, inventare, ad essere il motore propulsivo per nuove produzioni che generano lavoro e ricchezza, sarebbe un indicatore che ci potrà far dire che Milano è diventata la città della conoscenza che oggi intravediamo e che si sarà quindi affermata in Europa e nel mondo».
