Molinari: “Israele per la pace a Gaza ma Iran e Hamas non si fermeranno. In Europa minoranze di estremisti violenti hanno impatto su leader politici deboli”

Foto Mauro Scrobogna/LaPresse

La parola che ieri, nel giorno di Yom Kippur, è risuonata sulle bocche di tutti gli israeliani è stata: shalom. Pace. La vuole il premier Netanyahu, la Knesset, l’IDF. La società civile, le imprese, le famiglie degli ostaggi. E la pace non è più solo una utopica invocazione: è un documento protocollato alla Casa Bianca. Il piano di Trump su Gaza riporta gli Accordi di Abramo al centro del Medio Oriente, pone Israele alla testa della coalizione internazionale che vuole far cessare le ostilità lanciate da Hamas e da Jihad islamica il 7 ottobre scorso. Ma l’Iran resta il maggiore pericolo e Hamas può ancora prolungare la guerra. Ne abbiamo parlato con Maurizio Molinari, editorialista di Repubblica e scrittore.

Cosa distingue il piano di pace Trump-Netanyahu?
«L’importanza dei 20 punti di Trump è nell’intesa diplomatica raggiunta con i Paesi arabo-musulmani ed Israele su liberazione degli ostaggi, disarmo di Hamas, forza di interposizione araba e ricostruzione con un “Board of Peace” che include lo stesso Trump. È una piattaforma che fa rientrare la fine della guerra a Gaza nell’approccio di fondo degli Accordi di Abramo: i Paesi della regione lavorano assieme per sicurezza e prosperità, con la regia decisiva e indispensabile degli Stati Uniti. Dietro a questa tela diplomatica c’è la convergenza di Trump con i suoi alleati più stretti: il saudita Mohammed Bin Salman e l’israeliano Benjamin Netanyahu. C’è però anche un passo strategico in più rispetto agli Accordi di Abramo del 2020 perché questa volta l’intesa coinvolge anche Indonesia, Pakistan e Turchia: i maggiori Paesi musulmani non-arabi. Questo significa che dallo scenario della normalizzazione arabo-israeliana si passa a quello di una convergenza Israele-Islam, capace di ridefinire lo spazio geopolitico e geoeconomico dal Canale di Suez alla Malacca».

Pensa che l’intesa riuscirà davvero a reggere? Hamas, con la sua ala più estrema, ha già annunciato che non la firmerà…
«Hamas è al bivio fra il Qatar e l’Iran. Se ascolterà l’Emiro Al Thani, sostenuto da Egitto e Turchia, accetterà il piano Trump e la guerra finirà; se invece cederà alle pressioni degli ayatollah farà l’opposto e le conseguenze saranno regionali. Il Qatar è decisivo per i fondi di Hamas ma Teheran è la fonte delle sue armi. Sul piatto Al Thani può mettere ciò che Teheran non può garantire: il salvacondotto israelo-americano che consente ai capi di Hamas di uscire da Gaza e restare vivi. Ma la vita conta poco per i capi jihadisti e il rischio che scelgano di seguire Teheran esiste. Se così sarà, andremo incontro ad un’ultima, brutale, fase del conflitto iniziato il 7 ottobre 2023, con Israele che procede a Gaza per eliminare ciò che resta di Hamas e l’Iran che può intervenire a sua difesa, impiegando anche gli Houthi yemeniti. È questo scenario, di una ripresa della guerra diretta Israele-Iran, che spiega perché il Pentagono nelle ultime 72 ore ha iniziato a far affluire importanti mezzi militari nelle basi in Medio Oriente».

In Israele le posizioni sono divise. I ministri di estrema destra Ben Gvir e Smotrich hanno detto no: si può aprire una crisi di governo in cui Netanyahu sarà sostenuto dall’opposizione di centro, a partire da Yesh Atid?
«In Israele si voterà per la Knesset (il Parlamento) nel corso del 2026. Questo significa che l’esito del piano Trump può coincidere di fatto con l’inizio della campagna elettorale. Ben Gvir e Smotrich hanno interesse a non sostenere l’intesa Trump-Netanyahu per condurre una campagna di opposizione da destra. E a Netanyahu ciò può servire perché riposiziona il Likud al centro. Anche perché se l’attuale governo cadrà per l’uscita di Ben Gvir e Smotrich, l’opposizione di Lapid, Gantz e Lieberman sosterrà Netanyahu sul piano Trump. Andiamo incontro ad una campagna elettorale israeliana dove, come sempre, ogni candidato corre per sé. Gli accordi politici fra partiti si fanno solo dopo il risultato delle urne».

Perché il piano funzioni, la sicurezza di Israele deve essere garantita. Nella Striscia di Gaza Hamas va neutralizzata e i poteri di polizia dovrebbero passare a un corpo di transizione. Si sta già lavorando dietro le quinte in questa direzione?
«Sì, Paesi arabi in pace con Israele, come Egitto ed Emirati Arabi Uniti, possono avere un ruolo centrale nell’invio di forze di polizia. Con il sostegno logistico e di intelligence degli Stati Uniti. Ma anche con contributi europei, come ad esempio i nostri carabinieri a cui ha fatto, più volte, riferimento Mike Huckabee, ambasciatore Usa a Gerusalemme. Più complesso invece un ruolo del Qatar sul terreno a Gaza perché non ha normalizzato i legami con Israele».

La Flottiglia diretta a Gaza sembra il banco di prova immediato. Cosa può accadere se tenterà di forzare il blocco israeliano?
«Il piano Trump ha innescato in Medio Oriente una dinamica che tende al superamento di un conflitto brutale. Per la prima volta dopo due anni. Per questo anche Russia e Cina lo sostengono assieme al Papa, il Segretario generale dell’Onu e perfino lo spagnolo Pedro Sanchez, il leader europeo forse più ostile a Israele. L’unico Paese ad opporsi è l’Iran. In tale cornice l’intenzione della Flottiglia di violare i limiti delle acque internazionali per sfidare il blocco israeliano con un’azione che, invece, ripropone una logica di scontro, tesa ad alimentare i conflitti. Questo è il motivo per cui Mattarella, il governo italiano e la Cei gli hanno chiesto di fermarsi, consegnando gli aiuti umanitari a Cipro al cardinale Pizzaballa, che ha accesso ad un corridoio umanitario per Gaza. Perché in un mondo a soqquadro chi viola i confini moltiplica i conflitti».

Oggi è Yom Kippur, la festa più solenne del calendario ebraico. Che significato assume in un momento come questo, per Israele e per la Diaspora?
«Il pogrom del 7 ottobre 2023 è stato il momento iniziale di un’offensiva militare per distruggere Israele ed un’offensiva di odio nella Diaspora per aggredire gli ebrei. Ciò che tiene assieme i due fronti sono azioni e parole aggressive nel segno dell’antisionismo. Il sionismo è il Risorgimento nazionale del popolo ebraico che ha portato alla nascita di Israele dopo duemila anni di persecuzioni. Gli antisionisti negano agli ebrei di essere un popolo come gli altri. Per questo nel 2007 l’allora capo dello Stato, Giorgio Napolitano, definì l’antisionismo “antisemitismo travestito”. Questi sono i motivi per cui gli ebrei in questo giorno di Kippur si riuniscono in preghiera, gli osservanti come i laici ognuno nelle modalità che preferisce, accomunati dalla percezione di un pericolo senza precedenti dal 1945. Anche perché è la prima volta che ogni comunità ebraica nel mondo, da Sydney a Haifa, da Roma a San Francisco, da Berlino a Sderot, è minacciata. Non c’è angolo del mondo senza odio antiebraico».

La ferita del 7 ottobre resta aperta. I pochi ostaggi ancora vivi si trovano nei tunnel di Hamas, spesso senza cibo. Il mondo sembra ignorarlo: quanto pesa questo silenzio sulla percezione internazionale di Israele?
«L’assenza di empatia per la sofferenza degli ostaggi è stata, sin dall’8 ottobre 2023, la cartina tornasole del ritorno prepotente dell’odio antiebraico. Prima le loro immagini strappate nelle strade, poi l’indifferenza per le violenze orrende subite, quindi le bugie su di loro, fino a deumanizzarli denotano che Hamas, facendo scorrere il sangue degli ebrei solo in quanto tali, ha risvegliato l’aspetto più brutale dell’antisemitismo. Quella caratteristica che spingeva i cosacchi degli zar e gli aguzzini nazisti a gioire davanti al sangue versato degli ebrei: la convinzione che uccidendoli si guadagnava consenso, ci si sentiva nel giusto, dalla parte della verità».

Molti osservatori parlano di un cambio di narrativa globale. Fino a ieri Israele appariva isolato, oggi invece il piano Trump-Netanyahu ottiene l’appoggio di importanti Paesi arabi e musulmani. È davvero la fine della solitudine israeliana?
«Il Medio Oriente resta diviso fra campo della pace e della guerra. Hamas ha attaccato Israele per far crollare gli Accordi di Abramo e imporre il campo della guerra. Il piano Trump rovescia questa dinamica ed il mondo intero torna a comprendere che sono l’Iran e Hamas gli unici a perseguire la guerra. Questo è il cambiamento di percezione a cui stiamo assistendo».

Quali le ripercussioni in Europa?
«Si rafforzano quei governi, da Berlino a Roma, che hanno lavorato in questi mesi con Trump per avvicinare arabi ed israeliani. Le capitali che invece hanno scelto approcci più unilaterali, da Londra a Parigi e Madrid, sono obbligate ad accodarsi. Ciò che colpisce è come Merz e Meloni guidino governi stabili mentre Macron, Starmer e Sanchez sono nella situazione opposta, alle prese con instabilità e impopolarità. Da qui la deduzione che Macron, Starmer e Sanchez hanno tentato di giocare la carta anti-Israele a fini interni. Senza peraltro ottenerne giovamento. In maniera assai simile a quanto, in dimensioni assai più locali, è avvenuto nelle nostre Marche dove la scelta dell’opposizione di cavalcare le posizioni più estreme su Gaza non ha portato al successo elettorale. L’impressione è che la maggioranza degli europei è assai più moderata e consapevole sul Medio Oriente rispetto a minoranze di estremisti, molto aggressive e spesso violente, capaci di avere impatto su leader politici deboli e vulnerabili».