Russia e Ucraina riprendono a parlare. Forse. Anche se sui colloqui di Istanbul, a prevalere è stato sin da subito un generale pessimismo. Le due parti, in particolare quella ucraina, hanno accelerato sull’organizzazione di un terzo round quasi per dimostrare a Donald Trump di non essere sorde alle sue indicazioni. Ma le posizioni di Kyiv e Mosca appaiono molto distanti tra loro e difficilmente conciliabili, come ha suggerito lo stesso portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, nei giorni scorsi. Sul piano militare, quello che più conta per il presidente russo Vladimir Putin, nulla fa pensare che Mosca sia intenzionata a fermare proprio ora le sue operazioni. Se non per ottenere da un eventuale accordo di pace la completa accettazione dello status quo da parte di Volodymyr Zelensky. Droni e missili russi hanno continuato a colpire tutto il territorio ucraino mietendo nella notte tra lunedì e martedì vittime a Kherson e a Kramatorsk, dove è morto un bambino di dieci anni. I feriti in tutto il Paese sono stati almeno 45. Diverse esplosioni sono state sentite anche a Odessa, sulle rive del Mar Nero. E dal ministero della Difesa russo, è stata annunciata la conquista di un altro insediamento, Novotoreckoe, nella regione di Donetsk. Mentre a destare l’allarme di Kyiv è l’ingresso di alcune unità russe nella città di Pokrovsk, obiettivo fondamentale di tutta la nuova pressione militare russa nel Donbass.
Non è un caso che la Russia, a differenza dell’Ucraina, abbia scelto un atteggiamento del tutto diverso rispetto al dialogo. Zelensky ha annunciato la ripresa dei colloqui confermando Rustem Umerov come capo della delegazione e sottolineando gli sviluppi positivi del negoziato sullo scambio dei prigionieri. Il presidente ucraino ha anche detto di essere pronto a lavorare “per la restituzione dei bambini rapiti, per fermare le uccisioni e preparare un incontro tra i leader”. Putin, attraverso le parole del suo portavoce, ha invece preferito mantenere un atteggiamento quasi distaccato. “Non abbiamo motivo di sperare in svolte miracolose”, ha detto Peskov, che ha sottolineato come anche un accordo sui prigionieri o lo scambio delle salme dei caduti possa essere ritenuto un risultato in questa fase. E fino a ieri pomeriggio, la Russia non aveva nemmeno confermato la presenza dei suoi delegati in Turchia, lasciando un alone di mistero anche sulla reale fattibilità dell’incontro.
La tensione, del resto, si percepisce non solo sul piano bellico, ma anche sul piano diplomatico. Ieri, dopo l’approvazione del 18esimo pacchetto di aiuti contro il Cremlino, la Russia ha risposto con contromisure che riguardano “rappresentanti delle istituzioni europee, degli Stati membri dell’Ue e di una serie di Stati europei che si stanno integrando nella politica antirussa”, e a cui sarà vietato l’ingresso nel territorio della Federazione. Lo scontro tra Mosca e Bruxelles appare sempre più forte, come dimostrato anche dall’intensificarsi delle sanzioni Ue. Il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, a margine della conferenza stampa con l’omologa del Mozambico, Maria Manuela Lucas, ha anche “suggerito” all’Europa di seguire l’approccio dell’amministrazione Trump. E i raid lanciati dalla Russia prima che arrivasse a Kyiv il ministro degli Esteri francese, Jean-Noel Barrot, sono stati un messaggio molto chiaro, recepito e compreso anche dal governo ucraino. Il ministro degli Esteri ucraino Andrii Sybiha lo ha detto in modo esplicito proprio incontrando Barrot. “La scorsa settimana abbiamo ricevuto un’importante visita del generale Keith Kellogg (l’inviato Usa per il conflitto n.d.r.)” ha detto il capo della diplomazia ucraina, “e ho notato, tra l’altro, che durante la sua permanenza a Kyiv non sono stati registrati attacchi da parte dell’aggressore russo alla capitale”. “Questa è un’ulteriore prova di chi Putin teme veramente. Putin teme solo Trump. Capisce che solo gli Stati Uniti possono costringere la Russia a raggiungere la pace” ha affermato Sybiha. Un modo per ribadire che Zelensky ha bisogno di avere Trump al proprio fianco. Mentre a Kyiv ieri è arrivato anche il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar.
