Quante vite può contenere l’esistenza di un uomo? István, il protagonista di “Nella carne” di David Szalay (Adelphi, traduzione di Anna Rusconi), cambia vita più volte restando sempre lui stesso, un “loser”, direbbero gli americani, cioè un perdente, ma anche un “loner”, un uomo intrinsecamente solo.
Questo romanzo bellissimo, praticamente perfetto, avvincente, drammatico, uno dei più interessanti del 2025, spazia lungo decenni tra l’Ungheria, Londra, Monaco, ancora Budapest, con lui al centro; questo István che ricorda un po’ Travis Bickle, il taxi driver di Schrader-Scorsese o anche – come suggerisce il risvolto di copertina – il Meursault di Albert Camus. István vaga per un’Europa grigia come un’anima rassegnata a un Purgatorio senza uscite, un essere mediocre in un mondo vacuo. Piace molto alle donne forse per la sua umbratilità, per il non possesso di un’anima. Attorno a lui, la madre, le amanti, la moglie, il figliastro, il figlio: nessuno di loro è veramente importante per quest’uomo solo.
David Szalay è uno scrittore canadese, cresciuto in Inghilterra, di chiara origine ungherese, ha 51 anni e ha vinto diversi premi letterari. Maneggia uno stile estremamente asciutto, con rapidi dialoghi e piccole pennellate d’ambiente, alternando bello stile e crudezza quando serve, cioè spesso. “Nella carne” – la carne di István, la carne del mondo – racconta la storia di questo poco decifrabile ragazzo ungherese che mischia tempo perso a sesso, dentro un vortice di svagata esistenza, poche parole – l’ossessivo ripetere «okay» a troncare qualunque discorso – fino a un fattaccio, ancora giovanissimo che lo porta al riformatorio, e dopo lo ritroviamo a fare lavoretti qualunque. Una specie di reietto, votato al fallimento. Ci senti il De Niro di “Ma dici a me?“. Poi va in guerra, in Iraq, dove se la cava bene; quindi emigra a Londra, sempre lavoricchiando. Quando a un certo punto viene assunto come autista da un uomo molto ma molto ricco: e la vita cambia ma è sempre lui, anche una volta diventato ricco a sua volta. Ci fermiamo qui, ma il lettore avrà già capito che la storia di István è destinata ad avere ancora altre svolte.
Ora, dove sta il valore di questo romanzo? Innanzitutto nella stupefacente abilità di Szalay di snocciolare il racconto con una semplicità che in realtà è finemente intessuta con robusti fili letterari (come nello “Straniero” camusiano, una frase di “Nella carne” a volte contiene tantissimo). Poi c’è il substrato esistenziale della figura del protagonista, un uomo che non sai dire se buono o cattivo, se stupido o intelligente, se egoista o altruista: István è tutto questo al medesimo tempo. «Se e quando ci pensa, pensa al lavoro in azienda come a una cosa assolutamente temporanea, che farà magari per qualche mese, finché non trova altro. Solo che non sta veramente cercando».
È un uomo, István, che non si aspetta niente, nemmeno che le cose accadano: almeno fino al momento della vita in cui gli succedono involontariamente tante cose. Ma è come un rassegnato a vivere giorni perduti, immobile nei mondi che abita. E alla fine la sua è una vita che è passata nel tempo senza che al termine della notte se ne possa dare un giudizio netto. «Okay», direbbe lui, accendendosi l’ennesima sigaretta.
