Non ci restano che le parole

Immaginate di svegliarvi una mattina di febbraio, aprire la casella di posta elettronica, come tanti di noi facciamo ogni giorno prima di andare in Università o in ufficio, e di trovare un indirizzo prima d’ora sconosciuto che vi chiede di incontrarvi, di conoscervi. «Perché noi abbiamo qualcosa in comune», c’è scritto. Rimarreste increduli, la ignorereste, forse. Eppure quella mattina di febbraio 2017 Georges Salines, medico francese 57enne, quella mail non la ignorò. E non lo fece perché finiva così: «Anche io mi sento vittima di mio figlio». A scrivere è Azdyne Amimour, 67 anni, negoziante francese di origini algerine, ma soprattutto padre di Samy. Pochi ricorderanno questo nome, ma non Georges, che questo nome lo ricorda drammaticamente bene. Il 13 novembre di due anni prima Samy Amimour, figlio di Azdyne, aveva fatto irruzione armato insieme ad altri due complici ad un affollatissimo concerto metal nel Teatro Bataclan di Parigi, trucidando in pochi minuti 89 persone. Più una: Lola Salinas. Quella notte la Capitale francese in appena mezz’ora si trasformò nell’Inferno in terra.

Un commando di sette terroristi che rivendicavano fedeltà allo Stato Islamico attaccò la Francia simultaneamente in quattro punti diversi. Prima un’esplosione suicida allo Stade de France, poi la carneficina contro i passanti in Rue de la Fontaine-au-Roy e Rue de Charonne. E infine il Bataclan, storica sala concerti e punto di riferimento per la gioventù parigina, dove Lola ad appena 28 anni cade vittima del Kalashnikov imbracciato dal coetaneo Samy. Sono ricordi terribili ed indelebili per tutti noi. Io nel 2015 avevo undici anni eppure ricordo chiaramente la paura che in quei giorni avvolse l’Europa tutta. In un’intervista al Guardian, Georges Salines racconta di aver visto per l’ultima volta la figlia Lola proprio quel maledetto venerdì di novembre: «Era venerdì 13, ma io non sono superstizioso. Avevo visto Lola in pausa pranzo, in piscina. Ci siamo scambiati delle banalità. Quando pensi che ti rivedrai il giorno dopo, non dici le cose che contano». Brividi. Dopo gli attentati, Georges è in lutto, l’associazione che ha fondato con gli altri parenti delle vittime e il libro che ha scritto subito dopo gli attacchi servono come terapia per aiutarlo a superare un dolore che nessun essere umano dovrebbe mai sopportare. Non si rifugia nella preghiera, non è credente. E soprattutto non si vuole arrendere a sentimento di odio, rabbia o vendetta, come egli stesso ripete dal giorno dopo gli attentati. Semplicemente, se così si può dire, non riesce a capire. E forse è proprio per questo che decide di accettare l’invito di Amimour. Vuole capire l’incomprensibile.

Che, in fondo, è esattamente ciò che vuole anche Azdyne, che non si dà pace: «Perché Samy l’ha fatto? Lo abbiamo amato tantissimo, lo abbiamo fatto viaggiare, studiare. Io non ho avuto molto dalla vita, lui tutto. A ventiquattro anni, nel 2011, è iniziata la sua radicalizzazione prima su internet e poi in Siria. Non siamo mai stati estremisti e per questo Samy ci giudicava dei pessimi musulmani. Non si sentiva né francese, né algerino, è ha scelto il vestito dello jihadista. Era il candidato perfetto per Daesh». Nel 2014 Azdyne prova a salvare per l’ultima volta suo figlio, parte per la Siria, lo trova, ma è «irriconoscibile». È con queste premesse che l’incontro tra i due padri avviene, nel 2017, in un caffè nel quartiere della Bastiglia, nel centro di Parigi. Sarà il primo di tanti. Più si incontrano, più si parlano, più capiscono che questa che loro chiamano “terapia” sta soffocando in loro ogni possibile scintilla di vendetta, di odio, di rancore. Stanno lanciando un messaggio che è l’opposto di quello dei terroristi che gli hanno portato via Lola e Samy. Arriveranno persino a pubblicare un libro scritto a quattro mani, intitolato “Non ci restano che le parole”. Una storia che mi ha sinceramente emozionato e che – in attesa di leggere il libro che ho ordinato – mi fa pensare che forse un mondo diverso per la mia generazione è ancora possibile immaginarlo.