È in uno scenario post-atomico, con l’inclemenza dei numeri delle regionali, che Giuseppe Conte riunisce il Consiglio dei Ministri. Il partito che lo ha selezionato e voluto a Palazzo Chigi non esiste praticamente più. Ha preso percentuali tanto ridicole, domenica, da rimanere senza alcun consigliere nella punta dello Stivale, in quella regione dove pure aveva copiosamente distribuito reddito di cittadinanza, tutor e forestali. Il day after incita al risveglio del reggente, quel Vito Crimi che su Google si trova fotografato solo in posizione dormiente. Lui dice: «Siamo uniti, non ci arrendiamo», proprio come direbbe chi si sente assediato. E Paragone rende noto di voler lanciare un nuovo soggetto politico, che auspica di fare insieme con Alessandro Di Battista. Nessuno pensa di andare presto al voto, ma si avverte chiara la necessità di redistribuire le carte.
I pentastellati, pur interrogandosi sulle prossime mosse, tentati di abbandonare una volta per tutte la fatidica “terza via”, sanno che il governo deve andare avanti. Nessun riposizionamento – a oggi – nemmeno dal Pd. Che, anzi, intende spingere sull’acceleratore, stringendo sui dossier in campo e chiedendo al premier una fase due in cui i temi al centro dell’agenda vengano ricalibrati. Insomma, la spallata auspicata da Matteo Salvini non c’è stata. Ma, sicuramente, dopo il voto di ieri sono mutati, invertendosi, gli equilibri interni alla maggioranza. Tanto che il numero due del Nazareno, Andrea Orlando, osserva: «È giusto che oggi si usi questo risultato per modificare l’asse politico del governo su molte questioni. Ad esempio il M5s, dopo questa severa sconfitta, dovrebbe rinunciare a un armamentario che non paga elettoralmente e che rende difficile l’attività di governo».
E c’è chi, nei commenti dei giallorossi sul governo e sulla maggioranza, coglie già i primi sintomi del virus pre-crisi che colpì la precedente maggioranza gialloverde. Ancora una volta al centro di tutto il ribaltamento degli equilibri interni di forza e l’erosione di consenso dei 5 stelle. Certo, Matteo Salvini e Nicola Zingaretti sono quanto di più lontano e diverso possa esistere. Ma il cammino, secondo osservatori non solo del centrodestra ma anche della stessa maggioranza, potrebbe portare a una identica meta: la fine del governo (anche se non in tempi brevissimi).
È in questo quadro che atterra una data cardine: il 29 marzo sarà il giorno del referendum confermativo della riforma sul taglio dei parlamentari. Un voto ravvicinato che tende a rassicurare il premier Conte sulla non imminenza del ritorno alle urne, e utile al Movimento Cinque Stelle per fare degli Stati Generali di metà marzo un’occasione per intestarsi la battaglia per la conferma del taglio. Sul tavolo del governo non mancano i dossier bollenti, da Taranto ad Atlantia e il rebus Whirlpool, per citarne tre.
Senza dimenticare Alitalia, in mezzo al guado con appena cinque mesi di tempo per trovare una soluzione: sul tavolo dei dossier economici c’è un deciso sovraffollamento. I casi sono urgenti e molto spinosi, perchè riguardano decine di migliaia di lavoratori che rischiano il posto di lavoro. Da Roma a Taranto, passando per Napoli, Giuseppe Conte sa che ora è il momento di accelerare, per evitare che le vertenze industriali possano minare la stabilità politica della propria maggioranza. E c’è la patata bollente della prescrizione, con Italia Viva pronta a sfilarsi in caso di mancato accordo.
La proposta di legge Costa, presentata con l’intenzione di annullare lo stop alla prescrizione introdotto dalla legge, approda oggi nell’aula della Camera per la discussione generale. Ma è probabile che non faccia molta strada e che si decida di rinviarlo in commissione, per trovare una quadra con i renziani, fermi sul no, che intanto preparano i lavori della Assemblea nazionale, a Roma il 1 e 2 febbraio. «Dopo quello che è accaduto per Italia Viva c’è una prateria. È tempo di iniziare a cavalcare», ha detto ieri Matteo Renzi.
