Ultimi e perfino più ignoranti: a dircelo è il rapporto Education at a Glance 2025 dell’Ocse che non si limita a sciorinare una sequenza di cifre ma delinea, piuttosto, una diagnosi severa — per usare un eufemismo — che ci restituisce l’immagine di un Paese incapace di valorizzare le proprie energie migliori e ormai rassegnato a un lento declino culturale. L’Italia, infatti, produce pochi laureati (il 32%) e i pochi che ci riescono spesso vengono richiesti e apprezzati come il pane all’estero trovando significativi sbocchi professionali e riconoscimenti ben maggiori che entro i nostri confini. E questo a dispetto dei sovranisti e del prima gli italiani.
Quindi, dicevamo, pochi sono i laureati ma il nostro paese sembra aver smarrito la consapevolezza che l’istruzione non sia un rito giovanile da archiviare con un titolo, bensì un processo permanente, un esercizio di cittadinanza senza il quale la società intera rischia di scivolare nell’analfabetismo funzionale. Un rischio, per la verità, che non è più all’orizzonte: è già realtà, attestata da dati tanto negativi quanto certificati.
Il numero più eloquente riguarda le competenze di base degli adulti: il 37% della popolazione tra i 25 e i 64 anni è in grado di comprendere soltanto testi brevi e semplici, contro una media Ocse del 27%. Non parliamo di individui privi di titoli scolastici: persino un laureato italiano su sei rientra in questa categoria, mentre all’estero il dato si ferma al 10%. Significa che chi pure ha attraversato il percorso universitario spesso non sa più elaborare un testo articolato, interpretare un documento complesso, muoversi con sicurezza in una società che richiede discernimento continuo e capacità di analisi: qui si manifesta la fragilità di un sistema che considera lo studio un investimento a termine e non una linfa da alimentare costantemente.
Il problema quantitativo, d’altra parte, resta evidente: soltanto il 32% dei giovani italiani consegue una laurea, contro il 40% dei coetanei tedeschi e oltre il 50% di francesi e spagnoli; tra i figli di genitori con basso livello di istruzione appena il 15% riesce a completare il percorso universitario, e persino tra i figli di laureati uno su tre abbandona prima del traguardo. È la fotografia di un ascensore sociale inceppato, che trasforma la laurea in un privilegio quasi ereditario più che in una conquista personale. E, anche per chi ce la fa, il titolo vale poco: il differenziale retributivo con i diplomati si ferma a un misero +33% contro il 54% della media Ocse, un divario aggravato dall’eccessiva concentrazione di studenti in ambiti umanistici e sociali (oltre un terzo), a fronte della minore diffusione di lauree Stem, giuridiche ed economiche, che altrove costituiscono l’ossatura della classe dirigente. Se poi si considera la qualità media di quest’ultima nel nostro Paese, specie in ambito politico, il quadro appare lampante: errori marchiani, strafalcioni bipartisan, incompetenza diffusa, incapacità di gestire processi complessi e un cronico deficit di problem solving. In molti si illudono di potersi autocelebrare, spesso in modo stonato, nella convinzione che l’opinione pubblica sia uniforme e disinformata; ma questi report internazionali, invece, inchiodano chi ha responsabilità a compiere un’inversione di rotta senza seguire l’esperimento del governo albanese che per non sbagliare con gli umani ha messo nella squadra dell’esecutivo DIELLA il ministro virtuale creato con l’intelligenza artificiale, titolata a gestire gli appalti pubblici. La domanda se non ci fossero umani capaci di compiere il mandato è lecita da quelle parti ma non perdiamoci nei surreali modelli albanesi e torniamo in casa nostra.
Il primo terreno su cui agire è quello degli investimenti. L’Italia destina all’università e alla ricerca appena l’1% del Pil, pubblico e privato insieme, contro una media Ocse dell’1,4%; la spesa pubblica scende allo 0,6%, quasi la metà rispetto a Francia e Germania. Così accade che un alunno delle scuole elementari o medie costi allo Stato più di uno studente universitario, e che una maestra, pur laureata, percepisca uno stipendio inferiore del 33% rispetto a un altro lavoratore con lo stesso titolo, a fronte di un divario medio Ocse del 17%. Negli ultimi dieci anni, inoltre, il reddito reale degli insegnanti italiani è diminuito, mentre altrove cresceva a doppia cifra: una contraddizione che rivela quanto poco questo Paese creda nei propri docenti, ossia nella radice stessa della sua capacità di rigenerarsi. Non ci si stancherà mai di ripeterlo: il problema non è soltanto stipendiale, ma sistemico. Serve una riforma che armonizzi tutele e al tempo stesso premi il merito, favorisca l’aggiornamento costante, incoraggi la condivisione dei dati e renda effettivamente performante l’azione educativa e amministrativa.
In tempi complessi servono persone capaci non di semplificare, ma di affrontare la complessità e, se possibile, di vincerla. Eppure assistiamo al progressivo impoverimento del linguaggio, segnale inequivocabile di un’involuzione più ampia. Il vocabolario medio degli italiani si restringe anno dopo anno, come se la società intera fosse sottoposta a una lenta erosione semantica: la parola si riduce a frammento, slogan, interiezione. Per mesi ci siamo divertiti con il tormentone privo di senso di skibidi boppy, un passaparola digitale amplificato da video generati dall’intelligenza artificiale che ha monopolizzato schermi e conversazioni. Nulla di male, si dirà, poiché ogni epoca ha avuto le proprie mode effimere; ma mentre ripetevamo quel nonsense, la capacità di leggere un saggio, interpretare un contratto o comprendere un articolo complesso si assottigliava, segno che probabilmente dietro la leggerezza del gioco linguistico si cela un’involuzione culturale che rischia di ridurre il pensiero a pura eco.
La questione, tuttavia, non si risolve con un mero aumento del numero dei laureati né con l’aggiustamento dell’offerta disciplinare: in gioco vi è una visione più ampia che riconosca nella formazione permanente non un lusso opzionale, ma un diritto inalienabile e, insieme, una responsabilità collettiva. Senza questa prospettiva, l’Italia rischia di consegnarsi a un futuro di titoli deboli e competenze fragili, parole impoverite e ascensori sociali in panne.
Italo Calvino, nelle Lezioni americane, ricordava che ogni vita è un’enciclopedia e una biblioteca da aggiornare di continuo, un campionario di stili da rimescolare e riscrivere. L’Italia di oggi sembra aver smesso di arricchire la propria biblioteca interiore: scaffali polverosi, voci che si cancellano, pagine che restano bianche. La domanda decisiva, allora, non è quanti laureati avremo nel 2030, ma se saremo ancora capaci di leggere con profondità il mondo che ci circonda.
