Omicidio Kirk, proiettili con “dedica” e balletti sui social per festeggiare il cecchinaggio

A teacher from Gurukul school of Art completes artwork to pay tribute to Charlie Kirk who was shot and killed, in Mumbai, India, Thursday, Sept. 11, 2025. (AP Photo/Rajanish Kakade) Associated Press/LaPresse

Morire a trentuno anni in un campus universitario con la sola colpa di esercitare il proprio diritto alla libertà di espressione, dovrebbe accendere un campanello d’allarme in una società come quella americana dove la violenza politica non è una novità, e neanche un prodotto dell’attuale radicale contrapposizione che dal 2016 gli Stati Uniti vivono.

La storia politica americana è in parte una storia violenta, fatta di sangue, e di vittime spesso innocenti. Basta elencare tutti i presidenti caduti durante i loro mandato, la violenza della campagna elettorale del 1968 dove caddero Martin Luther King e Robert Kennedy, l’attentato a Reagan e la miriade di attentati sventati dal secret service e dalla FBI di cui forse non sapremo mai nulla. Del resto non è un mistero svelato da Hollywood quello della squadra dei servizi segreti chiamata a indagare e discernere le migliaia di minacce che ogni presidente riceve e capire quali siano il frutto di menti ottenebrate ma innocue e quali invece provengono da soggetti con l’indole di passare dalla semplice minaccia ai fatti. Non è un dettaglio che il sangue, quello di Abramo Lincoln abbia macchiato gli Stati Uniti dopo la fine del confitto interno che dilaniò la giovane nazione, segnando con il sangue l’unità ritrovata.

Il sangue che bagna le strade d’America non è una invenzione del cinema western, ma l’immagine priva di architettare romantiche e moderne di una nazione estrema nella sua più profonda interiorità. Per questo un certo stupore per l’emergere della violenza, se intimamente e umanamente legittimato, appare storicamente al quanto forzato. Se a questo si aggiunge il clima d’odio che da tempo promana da quegli stessi ambienti pronti ad inginocchiarsi per chiunque purché non corrisponda al profilo della vecchia America Wasp e neanche della giovane America latina, la spiegazione di come possa accadere quello che ieri è avvenuto alla Utah Valley University è evidente e purtroppo tristemente lontano dall’esaurirsi con questo ennesimo atto violento dall’epilogo drammatico.

E sbirciando i social alla notizia della morte di Charlie Kirk era facile imbattersi anche in chi festeggiava con balletti e musichette la morte di un uomo, di un padre di famiglia, bianco, cristiano, conservatore e etero sessuale. Il movente del delitto è sempre più chiaro, dopo il ritrovamento nella boscaglia intorno al campus del fucile – utilizzato per colpire a morte Kirk – e delle munizioni su cui erano incisi slogan antifascisti e di ideologia transgender.

Nessuno si inginocchierà per Charlie Kirk nei salotti televisivi, negli stadi e nelle competizioni olimpiche. E forse è giusto così, perché Charlie Kirk era figlio di una cultura che non ama inginocchiarsi se non davanti a Dio e che per le proprie idee è pronta a morire, ma in piedi, e cosi del resto Charlie è morto, non zittendo qualcuno, o impedendo la libertà di altri, ma dialogando, esercitando quella libertà che oggi è merce rara e diritto vietato a chi non si piega o in ginocchia ad un pensiero unico che ha finito per annichilire anche quelle università un tempo – anche nei momenti più cupi e grami – isole di libertà. Morire cosi, per esercitare la propria libertà nel cuore di un’università è forse nella sua tremenda drammaticità il ritratto vivo, come fosse un Goya, dell’epoca che viviamo e come sosteneva il celebre artista spagnolo: “Il sonno della ragione genera mostri”.