Onu, il discorso di Giorgia Meloni promosso da Campi: “Così dimostra che non è suddita di Trump”

«Giorgia Meloni ha definito senza possibilità di essere fraintesa la politica estera del nostro Paese. Una linea da inquadrare prima di tutto nel contesto europeo. Un messaggio chiaro per fermare le polemiche a casa nostra». Per Alessandro Campi, politologo e storico delle dottrine politiche all’Università di Perugia, il discorso di Meloni all’Onu è stato «denso di contenuti e utile per togliere i dubbi. Sono venuti meno gli equivoci pretestuosi riguardo l’atteggiamento dell’Italia troppo accondiscendente verso Israele e di conseguenza poco allineata agli altri Paesi europei».

Professore, partiamo appunto dai risvolti in Italia. Sul riconoscimento della Palestina, la premier ha messo le cose in chiaro.

«È stata una mossa abile. Ha messo in difficoltà le opposizioni. Adesso vedremo come reagiranno. Non possono continuare ad attaccare e a chiedere sempre di più. La disponibilità del governo c’è. L’impressione è che, ancora una volta, la causa palestinese venga strumentalizzata per ragioni di politica contingente. Le si imputava di non voler fare un passo formale sul riconoscimento della Palestina. Lei ha detto di volerlo fare, però a delle condizioni precise. Che poi sono anche quelle poste da Macron. È vero, il presidente francese ha compiuto un riconoscimento formale che l’Italia non ha fatto, ma sulla precondizione del disarmo di Hamas, e quindi non riconoscerlo come interlocutore politico, ha insistito anche lui».

Storicamente, l’Italia è sempre stata vicina al mondo arabo. Perché questo cambio di atteggiamento?

«Perché sono cambiati i tempi e i protagonisti. Hamas, oltre a essere un gruppo terroristico, è un soggetto al servizio dell’Iran e ha letteralmente sacrificato la causa nazionale palestinese in cambio di un disegno di destabilizzazione di tutta la regione in chiave jihadista. Per quanto corrotta e di matrice terroristica, la vecchia Olp aveva un’anima socialista e nazionalista. Oggi Hamas non c’entra nulla con la causa nazionale palestinese. Qui sta il paradosso. Quelli che dovevano difendere i palestinesi sono quelli che poi li hanno oppressi. Anche in questa guerra non hanno mosso un dito perché le sofferenze venissero mitigate».

La questione della Flotilla non pare chiusa.

«In gioco c’è una vicenda di intervento umanitario di cui vanno sottolineati gli effetti politici e materiali. Prima di tutto, dobbiamo essere consapevoli che questi aiuti non arriveranno mai a Gaza. Gli israeliani lo impediranno. E certo Hamas non li vuole. Poi c’è l’ostacolo logistico. A Gaza non si può attraccare. Altrimenti non si capisce perché non l’abbiano mai fatto finora. Cibo e medicinali arrivano via aerea o via terra. È chiaro quindi che l’unico obiettivo raggiungibile è politico».

E su questo fronte come si sta muovendo il governo italiano?

«Secondo me, sta rispondendo in maniera molto ragionevole. È chiaro che non condivida lo scopo della missione, ma non può nemmeno impedirla. Sta mettendo in sicurezza i cittadini italiani che hanno preso questa decisione. L’invio di due navi è una scelta impegnativa. Si vuole comunque evitare che accada qualcosa. Al tempo stesso si sta cercando di aprire canali diplomatici per vedere se questi aiuti possano arrivare diversamente. È anche un modo per mettere all’angolo i responsabili della missione. Bisogna capire se vogliano veramente aiutare la popolazione di Gaza, se accetteranno la mediazione vaticana, oppure se stiano cercando un incidente».

Torniamo al Palazzo di Vetro. Un altro passaggio importante del discorso di Meloni è stato quello sulla riforma dell’Onu. Una posizione distante da quella distruttiva di Trump.

«Ci si stupisce sempre che Giorgia Meloni dica cose diverse da quelle di Donald Trump. È sbagliato il punto di partenza. L’amicizia è indubbia. La consonanza e la simpatia pure. Ma ci si dimentica che, nel corso degli anni, Giorgia Meloni ha consolidato le sue relazioni con gli ambienti repubblicani, ben prima che Trump emergesse come leader del Gop. È la realizzazione di una strategia di accreditamento sulla scena internazionale, sfuggita a molti osservatori».

Amicizia ma non sudditanza, in pratica.

«Assolutamente. Le differenze con la destra americana ci sono e hanno fondate ragioni storiche. L’Italia fa il suo gioco nel concerto europeo, e questo, per alcuni aspetti, è prioritario anche ai rapporti preferenziali che la premier ha con la Casa Bianca».

Che possibilità ci sono, partendo proprio dal concerto europeo, che l’Italia di Giorgia Meloni possa fare da locomotiva in un processo di riforma delle Nazioni Unite?

«Non si può fare da locomotiva da soli. E per una ragione anche molto banale. L’Onu è composta ormai in prevalenza da Paesi che si fatica a definire democrazie secondo i nostri standard. Se c’è una minima possibilità di arrivare a un processo di riforma delle Nazioni Unite, bisogna farlo di comune accordo con le altre democrazie che sentono la stessa esigenza. Certo, il fatto che gli Stati Uniti non abbiano un approccio riformatore su questo tema è un grosso problema. Credo che, sul ruolo dei grandi organismi internazionali, si arriverà a un dunque quando gli Usa capiranno che in gioco c’è anche un loro interesse nazionale. Del resto, nemmeno a Washington conviene avere una governance del mondo che sia meno caotica».