Gli orfani della guerra cercano affannosamente nuovi palchi su cui esibirsi. Va bene anche una partita di calcio, l’importante è potersi indignare per i massacri che c’erano e non impegnarsi per quelli da scongiurare. Hanno taciuto sulle esecuzioni in pubblica piazza di Hamas. Tacciono sull’Ucraina, un paese che dal febbraio 2022 paga un prezzo altissimo di sangue e di rovine per una libertà che non è solo sua.

È quella lotta patriottica a rendere oggi forti le nostre patrie e vitali i valori europei di civiltà e democrazia. Pesano come piombo i silenzi su bombe lanciate deliberatamente contro obiettivi civili e anche convogli Onu. È imperdonabile il cono d’ombra sui bambini, uccisi o strappati a migliaia alle loro famiglie per essere deportati in Russia solo perché ucraini. Questo non è razzismo? Gentili opinionisti del “genocidio”, questa non è vocazione a cancellare un’altra etnia, un altro popolo, un’altra nazione?

A proposito di palchi. Anzi, di red carpet. Il Festival del cinema di Roma potrebbe essere un bel pulpito per chiedere a gran voce di fermare il Cremlino. I russi si vantano: stiamo procedendo piano ma uccidendo molti ucraini, e contiamo sul fatto che i loro uomini da mandare a morire non sono infiniti. Il tempo, in questo cinico calcolo dello sterminio, vale oro. Se il set della protesta pacifista non era solo ideologico, che oggi i riflettori si accendano su Bucha, Kharkiv, Odessa, Zaporizhzhya. La pace di Trump è stata definita falsa, incompleta, anzi “terrificante” (copyright 5 stelle, gli stessi dei palestinesi-pellerossa e manodopera dei casinò, solo perché potrebbero trovarsi a lavorare in una Gaza ricostruita e libera). Ma la realtà è all’opposto. È anzi ora di disegnare un altro piano in 20 punti, un altro diktat di Washington – ma questa volta unito al fronte euroatlantico – per fermare stragi e distruzioni in Ucraina.

Non è più tempo di post su Truth dove dirsi “delusi da Putin”, né di petizioni oniriche all’Onu o di risoluzioni del Parlamento europeo. Serve una svolta strategica concreta, e persino brutale, che dica ai russi: fino a qui. Che ripeta agli ucraini: non siete soli. E che sappia intimare ai tiepidi d’Europa: ora basta. Perché ogni giorno che passa Mosca ci sfida e ci irride sull’inabilità a difenderci, e ogni giorno di più sperimenta l’impunità. Gli orfani della guerra accendono piazze e collezionano cittadinanze onorarie, ma appaiono sempre più per ciò che sono, profeti faziosi della pace selettiva. Mettono sui loro cartelli l’atroce 7 ottobre come “resistenza”, per poi ignorare la resistenza vera che è quella di Kyiv. Sventolano bandiere arcobaleno ma non le portano dove brucia il fuoco dell’invasione. Per loro, le guerre lontane servono solo se si possono trasformare in un comizio antioccidentale. Per loro, la guerra vicina, cioè la libertà per l’Ucraina, sembra poco più di un fastidio. Forse perché dimostra che la democrazia ha un prezzo, e non si può sempre pagarlo con le parole.