Se è ormai per molti accettabile affittare l’utero di una donna, se vale insomma il principio che, se c’è consenso, tutto può essere sottoposto alle regole del mercato, allora non c’è da stupirsi se un giorno sarà davvero possibile vendere il proprio tempo su questa terra. Paradise è un film distopico appena uscito su Netflix, ambientato nella Germania di un futuro molto prossimo, in cui una clinica, Aeon, ha scoperto un metodo per “donare” anni di vita.
E così, se sei una famiglia di immigrati senza prospettiva, vieni convinto a “donare” 15 anni di vita di tuo figlio appena 18enne in cambio di 700.000 euro.
C’è una frase del protagonista, impiegato proprio nella clinica, che colpisce subito:
“Se alle persone non resta che la loro giovinezza davvero vuoi vietare loro di trarne profitto?”. Se alle donne non resta che il loro utero, davvero volete vietare loro di trarne profitto?
E però, la prospettiva del protagonista si ribalta quando la loro casa va a fuoco: la moglie Elena ha infatti dato come garanzia sulla casa 40 anni di vita.
Straziante la scena in cui viene costretta alla donazione e ancora di più quella in cui osserva nel giro di poche ore il suo corpo invecchiare e la procedura portarla all’aborto.
Senza svelare come prosegue, possiamo però soffermarci su degli elementi che rendono la pellicola se pur fantascientifica, capace di far riflettere.
Come quando la responsabile della clinica, Sophie Teissen, in uno spot, dice: “L’innovazione non può essere fermata ma usata in modo responsabile”.
Ricorda molto lo slogan usato ogni volta che vengono sollevati dubbi sul progresso slegato dall’etica.
Un altro aspetto del film ci riporta al dibattito odierno: alcuni sostengono che vietare sia peggio di regolare. Una tesi che si scontra in alcuni casi con la realtà: in Ucraina, dove l’utero in affitto è permesso, è stato di recente scoperto un traffico di neonati.
E anche nel mondo distopico di Aeon, ovviamente, la “donazione” di anni di vita avviene anche clandestinamente.
Pure il lessico ricorda quello orwelliano a cui ci stiamo lentamente assuefacendo: non utero in affitto, ma “gpa solidale”, non “vita strappata”, ma “donazione di tempo”.
Paradise, lungi dal rappresentare una semplice film di fantascienza, è una critica al capitalismo senza limiti, alla scienza senza etica.
Ma anche alla dismissione del welfare state: Elena è un medico, che, all’inizio della storia, viene criticata dal marito per il suo stipendio basso. Ed è nell’ospedale pubblico, che medici come lei cercano di salvare la vita di tanti, troppi anziani prematuri.
Quello che Paradise lascia al termine del film non può e non deve però essere una facile avversione al capitalismo e al progresso: perché non sono capitalismo e scienza i nemici bensì l’assenza di etica e valori verso cui la società occidentale sembra volersi avviare.
La scienza ha salvato tante vite, indistintamente.
Il capitalismo ha prodotto benessere.
È slegandoli dalla tutela della dignità dell’essere umano, che si trasformano in mostri distopici.
