Abbiamo chiesto a Nichi Vendola, ex governatore della Puglia, di aiutarci a ricostruire le troppe slabbrature della vicenda di Bari.
L’indagine, gli ispettori… era proprio il caso? «La sgrammaticatura istituzionale è la spedizione al Viminale della pattuglia dei parlamentari del centrodestra, guidata da chi ha fatto del garantismo la professione di una vita. Con l’avvocato di Berlusconi che oggi fa il viceministro della Giustizia, e che oggi si comporta come un qualunque Gemmato. Normalmente sono la Prefettura e la Procura della Repubblica che sollecitano un intervento dall’alto a fronte di un quadro inquietante della collusione della vita amministrativa con le organizzazioni mafiose. A Bari l’iniziativa della destra ha ferito il sentimento di orgoglio di una città che, nel corso di un ventennio, è cambiata radicalmente: prima era scippolandia, città degli ecomostri e del Petruzzelli bruciato, delle periferie degradate e del coprifuoco, oggi è una meta di attrazione del turismo internazionale, città dei servizi e della cultura. Il Fossato del Castello Svevo ancora nel 2006 era un’isola ecologica, oggi è un salotto. Certo, ci sono problemi e contraddizioni. Per esempio il rischio di gentrificazione che questo processo di rigenerazione urbana porta con sé: chi ha molti capitali, come le mafie, li reinveste anche nella “nuova Bari”. Bisogna stare sempre in allerta, mai abbassare la guardia. Poi c’è un problema politico-culturale».
Quale? «Come alziamo mura inespugnabili per impedire l’accesso del malaffare, della malavita nella vita amministrativa? La fragilità dei partiti rende la politica terreno di conquista di un ceto di traghettatori, di voltagabbana, di Miss e Mister preferenze, si corteggiano i virtuosi del clientelismo, torna prepotente l’antico male del trasformismo… Nella vicenda barese il voto di scambio politico-mafioso è stato fatto da candidati del centrodestra. Mi indigna che siano finiti nel centrosinistra, dove non ce n’era bisogno. Era l’ epigrafe di un mio libro: “cercare di vincere senza paura di perdere”. Quando per vincere accetti tutto e tutti la gente non vede più la differenza tra destra e sinistra».
Questa vicenda li racconta uguali, perché c’è il tentativo strumentale di utilizzare la magistratura in un quadro politico che si è stabilizzato da due decenni, e dunque accadono cose inaudite come quella di avviare l’iter per il commissariamento. E lei stesso è stato sotto la pressione della magistratura che con la politica colludeva… La politica di sinistra per sciogliere le amministrazioni di centrodestra ha usato lo stesso grimaldello giudiziario. C’è una dannazione della politica del Mezzogiorno? «Non so. Noi abbiamo spinto per far accendere i riflettori istituzionali su situazioni assai compromesse, parlo per esempio del litorale laziale, ma abbiamo incontrato grandi difficoltà. Dico ciò che penso: la normativa che disciplina lo scioglimento dei consigli comunali ha in sé un tale grado di aleatorietà che si presta al rischio della strumentalità politica. Possiamo fare un bilancio almeno di questo. Perché avere sindaci che sono diretta espressione di un clan mafioso è un conto, altro conto è avere un quadro indiziario molto generico. Su questo penso, a prescindere dal colore delle amministrazioni comunali, penso che bisogna stare attenti».
Antimafia e commissariamenti strozzano il voto democratico degli elettori. «Ricordo il caso di un’amministraziol’appalto per la raccolta della nettezza urbana a una ditta. Arrivato il Commissario prefettizio, ha confermato l’appalto per la stessa ditta. E conosco molti casi di questo genere: c’è l’alea della mafiosità che rimane una suggestione più che un fatto provato. Dico a tutte le parti in causa: questo tema va approfondito con la cautela necessaria, trattandosi di un Paese come l’Italia. Ma un’Antimafia leggera e di facili costumi non ci serve. Non ci serve più. Dobbiamo rifondare l’Antimafia, nel suo signif i – cato sociale e culturale e nella sua forza di strumentazione normativa».
Cronaca politica di questi giorni. Grande risposta popolare spontanea in piazza a Bari, Emiliano perché ha fatto quella dichiarazione? «Emiliano ha un suo stile ipertrofico e iperbolico. E probabilmente ha raccontato una panzana. Lo fa perché quella non è la sua piazza, è la piazza di Decaro. E cerca allora di sovrapporre la sua immagine a quella del sindaco. La verità è che tutto il popolo di centrosinistra in Puglia è amareggiato nei confronti del governatore proprio per la questione del trasformismo. Che lui ha teorizzato e legittimato, sotto le insegne del civismo».
Ha aperto le porte al filone del populismo giudiziario? «Ha aperto le porte ai professionisti di un consenso a volte opaco».
Rappresenta quella modalità di sindaco pre-populista, il Cito di Taranto? «Cito me lo ricordo bene, l’ho combattuto frontalmente, in quegli anni invece Emiliano con grande efficacia portava alla sbarra i capi mafia. Ma in politica ha usato uno stile e un linguaggio tipico del populismo, mentre accoglieva in casa troppi, li chiamo così, “nemici del popolo”. A me il populismo non piace in nessuna delle sue varianti».
Il sindaco sta in una zona grigia dove guarda in faccia la mafia. Emiliano appartiene a quella generazione di magistrati e di uomini delle istituzioni che si relazionavano con il male. Era una classe dirigente che si sporcava le mani. E poi c’è il tema di scongiurare gli errori dei padri. C’è chi indaga i figli dei boss che fanno i concorsi: è come se mafia e antimafia si volessero legittimare reciprocamente. «Io ricordo che c’erano anni in cui si parlava solo di abigeato a Foggia e di scippolandia a Bari, dando la rappresentazione di una malavita arcaica, mentre stava nascendo una moderna industria mafiosa. Ma la storia della Puglia ha visto determinarsi forme di resistenza sociale alla mafia. Cutolo era sbarcato a Lucera negli anni Settanta provando a immaginare una penetrazione della Camorra in Puglia. Gli ‘ndranghetisti con i fratelli Amodeo sbarcano a Taranto… tanti tentarono di mafiosizzare e di mettere insieme le storie criminali territoriali. La fortuna è che non ci sono riusciti. La risposta indigena alla mafia, la Sacra Corona Unita, non è riuscita a uscire dal recinto salentino. Non abbiamo avuto una cupola regionale, ma una nebulosa. In questo quadro, con fenomeni di gangsterismo urbano legati alle nuove leve, i fenomeni meritavano di essere contrastati anche con un’antimafia sociale. Non sono stati pochi i ragazzini reclutati o dai clan che hanno trovato solo nelle carceri minorili un aiuto, uno sguardo educativo di cui avevano bisogno. L’antimafia come stigma eterno, per cui c’è un codice mafioso legato al Dna delle persone, a me non convince. Ci sono stati contrasti all’interno di famiglie mafiose, con pezzi che se ne volevano sottrarre. Che volevano emanciparsi dal lontano zio che faceva il boss. Dobbiamo recuperare anche nei confronti della lotta alla mafia un atteggiamento più legato alla bonifica sociale e culturale dei territori. E meno legato all’antimafia come mistica eroica e pura repressione militare. E poi non mi piace condannare le persone a prescindere dal fatto che abbiano commesso reati o meno».
Possiamo dire che il sistema eccezionalistico dell’antimafia consiste in un modello che replica lo stigma della condanna, perpetuando in modo deterministico la condanna del male attraverso le generazioni? «Non conosco la storia giudiziaria di tutto il Mezzogiorno ma la storia opaca di alcune procure. Conosco, parlo di venti o trent’anni fa, quel cortocircuito dei magistrati messinesi indagati a Reggio o a Catania, catanesi e reggini indagati a Messina… Penso a quello che è stato la Calabria. A quello che hanno rappresentato alcune vicende giudiziarie. Certo c’è stata malagiustizia, c’è poi stata una sovraesposizione della magistratura narrata e percepita come “giustiziera” più che come strumento di giustizia. Cosa significano i 19 processi e le 19 assoluzioni di Bassolino? Il calvario giudiziario di Oliverio? Una certa mafiologia enfatica ci porta in un vicolo cieco, perché se tutto è mafia, niente è mafia. Dobbiamo rimettere la mafia nel suo contesto, leggerla come elemento distorsivo dello sviluppo, cercare di interrogarne oggi la enorme capacità di accumulazione e di reinvestimento di ricchezza illecita. Perché pur avendo i vecchi patriarchi mafiosi i piedi nel Mezzogiorno, investono nel ciclo dei rifiuti in Pianura padana, o nei ristoranti in Scozia. La mistica dell’antimafia non serve a nulla».
Continuerà a essere così finché la politica continuerà ad agire con la leva dell’antimafia per colpire i nemici… «Al contrario: da quanto tempo non esiste più una discussione seria e documentata, in Italia, su cos’è oggi la mafia? La mafia come oggetto di conoscenza è uscita dai nostri radar. Senza questa attenzione non strumentale della politica verso la mafia, siamo nei guai. Se non si tiene acceso un riflettore su cosa sia oggi la ‘ndrangheta o la camorra o cosa nostra, se la politica riduce l’antimafia a pura retorica, non basterà fare affidamento a chissà quale autorità salvifica
