Pena sospesa a Becir, ma solo perché possa morire in pace

Questa è la storia di Becir e della sua famiglia, una storia a lieto fine, anche se per ora amaro. Becir è di nazionalità croata, residente in Istria, e viene arrestato mentre si recava a una visita medica a Trieste, con titolo di reato pesante, condannato a una pena fissa come un macigno. Solo, senza capire la lingua italiana, con numerosi gravi problemi di salute, viene tradotto in carcere a Padova, per essere poi trasferito in un carcere ancora più a Nord. Rassegnato al proprio destino, un giorno lo incontro a colloquio e inizia, per me da avvocato, una lunga corsa ad ostacoli per un riavvicinamento alla famiglia, e per la scarcerazione.

Da avvocato, peraltro, mi capita spesso di conoscere il dramma; quel dramma bilaterale, che squarcia la normalità della vita sia per l’autore e la sua famiglia, sia per la vittima e i suoi affetti. Irreversibilmente, anche per tutti coloro – operatori compresi – che vi entrano a contatto. Operare nella sofferenza, non è facile. Anche per noi operatori del diritto, per noi avvocati. Una professione, quest’ultima, profondamente intrisa di umanità: trovare la soluzione spesso è impossibile, trovare quella più giusta anche umanamente è difficile. L’emergenza sanitaria ha aumentato le difficoltà, rendendo quasi impossibile svolgere il nostro compito, la nostra funzione sociale. Questo caso, come tanti altri sofferti, mi riporta alle origini della scelta di essere un avvocato, la “sentinella della legalità”, nell’oscurità, nella drammaticità della vita.

All’alba del lockdown, il 20 febbraio, finalmente posso tirare un brevissimo sospiro di sollievo nel sapere che il Tribunale di Sorveglianza ha accolto l’istanza di detenzione domiciliare per grave infermità fisica. Eppure, nel momento di massima soddisfazione anche professionale, la vita ricorda che nulla è scontato: in detenzione domiciliare, la salute infatti è venuta a mancare, tanto che Becir si trova ad un passo dalla morte, in un nuovo dramma che si voleva evitare. Rammento a me stessa, come a noi tutti operatori, come per uno straniero l’accesso alla misura alternativa, oltre a essere più difficile, si rivela una salita disumana: l’accesso alle cure mediche, ai servizi sociali del territorio, al medico di base, alla residenza, tutto viene negato per burocrazia infinita. La solitudine in cui piomba la famiglia spesso trova risposta proprio nell’avvocato, che, nonostante abbia già svolto il proprio compito, diventa il collante con la comunità.

Quella soluzione giuridica che, all’inizio, pareva corretta, ora non lo è più. Umanamente non è più sostenibile. Perché la vita, anche se spezzata deve essere prima di tutto dignitosa, sia per il condannato sia i propri affetti. Sia per noi operatori, che di fatto siamo parte integrante della comunità. In questo momento, sì l’avvocato quale “sentinella dei diritti” deve fare la differenza e avanzare le richieste più coraggiose, ma che non lasciano spazio a soluzioni diverse: tutto ruota intorno alla dignità. Perché la dignità accompagna l’essere umano nella vita e nella morte, non acquistandosi per meriti o demeriti. E deve essere il presupposto che accompagna la fase terminale della vita, il passo verso la morte di ogni cittadino, sia esso recluso o libero.

Sulla base di questo ragionamento (avallato anche dalla Cassazione e da una parte della giurisprudenza di merito in tempi di Covid), il Magistrato di Sorveglianza ha accolto la sospensione dell’esecuzione della pena per l’infermità fisica del condannato, grave al punto da portare alla morte. Una sospensione della pena, senza più alcuna prescrizione, perché ciò che conta, ora, non è la pericolosità sociale, del tutto assente, né la pretesa punitiva dello Stato, ma che la famiglia possa accompagnare il proprio caro alla morte con dignità. In altri termini, ciò che dovrebbe essere garantito ad ogni cittadino.