C’è un dato che racconta più di mille analisi: in Italia, Pd, M5S e Avs non hanno votato la mozione di sostegno al piano di pace americano. Un’astensione che non è prudenza, ma un atto politico di peso. Perché quando il Medio Oriente smette di bruciare grazie a un accordo firmato da Trump e accettato da Israele, la sinistra italiana si scopre improvvisamente allergica alla pace.
Non è una questione di geopolitica. È una crisi di identità. Per una parte della sinistra, la pace “sbagliata” — quella non mediata dall’Onu, non firmata da un progressista, non raccontata come redenzione collettiva — è un affronto. È la sconfitta simbolica di un linguaggio che da anni si alimenta di vittime e di colpevoli, in cui Israele deve restare colpevole. Questa postura non è più solo anti-israeliana. È, in senso profondo, antigiudaica. Perché rifiuta all’ebreo, e oggi a Israele come suo erede politico, il diritto di essere soggetto della storia. Lo accetta solo come oggetto di giudizio: colpevole quando reagisce, sospetto quando tace, disumano quando vince, arrogante quando sopravvive.
In questo schema, la pace è destabilizzante. Se il conflitto finisce, il mito crolla. E la sinistra, privata del suo teatro morale, non sa più dove collocarsi. Così, mentre in Medio Oriente si liberano ostaggi e si avviano ricostruzioni, in Europa qualcuno rimpiange il rumore delle bombe. L’astensione dal voto non è quindi una sfumatura parlamentare: è la traduzione politica di un riflesso culturale antico. Quello per cui la fine della guerra è meno importante della coerenza ideologica, e la vita umana conta solo se conferma la propria narrazione. La sinistra italiana non è contro la guerra: è contro la pace che non controlla. E nel rifiuto di riconoscere Israele come parte del futuro, rivela la sua più antica ombra — quella di un antigiudaismo che, cambiando linguaggio, non ha mai smesso di odiare nello stesso modo.
